Abstract: Lo scritto esamina una recente pronuncia della Corte costituzionale, le cui considerazioni motivazionali sono l’occasione per interrogarsi sull’indirizzo venuto recentemente in auge nella giurisprudenza di cassazione in materia di epiloghi decisori del giudizio di legittimità innescato da ricorso avverso l’ordinanza d’inammissibilità dell’istanza di revisione.
The essay examines a recent decision by the Constitutional Court which raises serious issues about Supreme Court’s case law on post conviction challenges.
Sommario: 1. La recente sentenza n. 103/2023 della Corte costituzionale. 2. L’indirizzo interpretativo del giudice di legittimità oggetto di scrutinio. 3. I quesiti posti all’attenzione del giudice delle leggi. 4. La declaratoria d’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale. 5. Il “messaggio in bottiglia” affidato dalla Consulta alle pagine della propria motivazione. 6. Scenari futuri. 7. Considerazioni conclusive.
- La recente sentenza n. 103/2023 della Corte costituzionale.
Una recente sentenza della Corte Costituzionale[1] propone interessanti spunti di riflessione in materia di epiloghi decisori del giudizio di cassazione innescato dal ricorso avverso l’ordinanza di inammissibilità dell’istanza di revisione, pronunciata ai sensi dell’art. 634 comma 1 c.p.p.
Le ragioni di interesse per la decisione menzionata non dipendono dalla natura del provvedimento assunto, avendo il giudice delle leggi dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata. Piuttosto, esse promanano dalle peculiarità della fattispecie alla base della questione di legittimità proposta e dall’inconsueto rilievo argomentativo che la Consulta affida a un obiter dictum della propria motivazione, lasciando chiaramente intendere come la norma censurata, alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale sedimentatosi nel diritto vivente, si presti a seri dubbi di legittimità costituzionale.
La decisione richiamata, dunque, se da un lato omette di affrontare nel merito il quesito sottoposto dal giudice a quo, a cagione della sua irrilevanza nel corrispondente giudizio, dall’altro contiene un esplicito riconoscimento della non manifesta infondatezza dei profili di illegittimità rilevati dal giudice rimettente.
Se anche la sentenza non può qualificarsi un provvedimento monito, non sfugge al lettore il vero e proprio “messaggio in bottiglia” indirizzato dalla Consulta agli interpreti.
Al fine di mettere a fuoco i termini della decisione e di meglio comprendere i corollari che da essa possono trarsi per il futuro, occorre fare un passo indietro e richiamare l’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità che è alla base dei profili di incostituzionalità sottoposti all’esame del giudice delle leggi.
- L’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità oggetto di scrutinio.
Com’è noto, l’art. 634 c.p.p. prevede che il giudice della revisione, allorché ritenga manifestamente infondata l’impugnazione straordinaria, possa dichiararne – anche d’ufficio e, quindi, con provvedimento assunto de plano[2] – l’inammissibilità, a mezzo di apposita ordinanza.
Legittimati a impugnare tale provvedimento sono – se non coincidenti – il condannato e il soggetto che ha proposto l’istanza di revisione, attraverso la proposizione di ricorso per cassazione.
Nel caso di accoglimento del suddetto ricorso, il comma 2 della stessa disposizione di legge prevede espressamente, quale effetto delle modifiche intervenute con l’entrata in vigore dell’art. 1 comma 2, L. 23 novembre 1998, n. 405, che «la Corte di cassazione rinvia il giudizio di revisione ad altra Corte di appello individuata secondo i criteri di cui all’articolo 11».
Tale previsione è strettamente correlata alla disciplina della competenza in ordine all’impugnazione straordinaria stabilita a mente dell’art. 633 comma 1 c.p.p., così come risultante dalla rimodulazione legislativa operata nell’ambito dello stesso intervento riformatore appena citato.
L’art. 1 comma 1, L. 23 novembre 1998, n. 405, ha, infatti, stabilito che la richiesta di revisione debba essere presentata «nella cancelleria della Corte di appello individuata secondo i criteri dell’art. 11».
Evidente la ratio dell’intervento legislativo sopra richiamato: esso mira a rafforzare la garanzia di imparzialità del giudice della revisione, quale rimedio straordinario all’errore giudiziario. Tale obiettivo è stato ritenuto meglio assicurato attribuendo la potestà a decidere sull’istanza di revisione a un giudice situato in un distretto diverso da quello in cui è stato assunto il provvedimento oggetto di impugnazione straordinaria, individuato attraverso il rinvio ai criteri tabellari previsti per i procedimenti riguardanti i magistrati.
La vigente sagomatura dell’art. 634 comma 2 c.p.p., rispetto alla norma attributiva della competenza appena richiamata, configura, quindi, una tutela dell’imparzialità del giudice ulteriore e aggiuntiva, attraverso l’esplicita deroga alla regola, sancita dall’art. 623 comma 1 lett. a) c.p.p., secondo cui, in caso di annullamento da parte della Corte di cassazione di un’ordinanza, il giudizio di rinvio è destinato a svolgersi presso il medesimo ufficio giudiziario che l’ha emanata.
Non è azzardato affermare che, anche questa previsione, fornisce dimostrazione della peculiare sensibilità – di marca schiettamente liberale – dell’ordinamento rispetto all’esigenza di emendare eventuali errori giudizio, tradottisi in una condanna iniqua.
Sotto il profilo assiologico, essa rappresenta il diretto portato del valore prioritario che viene attribuito alla libertà personale e ai diritti individuali rispetto ad ogni altro interesse tutelato dall’ordinamento, ivi inclusa, la certezza dei rapporti giuridici e l’intangibilità del giudicato, nonché della configurazione del ne bis in idem come garanzia ad personam ad efficacia meramente preclusiva[3].
In questo contesto si è venuto affermando, nella giurisprudenza di legittimità, un orientamento interpretativo che ha inteso fortemente rastremare l’ambito di applicabilità della disposizione in questione.
Si è, in particolare, stabilito che la regola sancita dal citato art. 634 comma 2 c.p.p. non si applichi nel caso in cui l’annullamento della declaratoria di inammissibilità dell’istanza di revisione, pronunciata ai sensi dell’art. 634 comma 1 c.p.p., debba essere disposto dalla Corte di cassazione in dipendenza di una valutazione del giudice di merito esorbitante il vaglio preliminare di non manifesta infondatezza della revisione in rapporto alla astratta idoneità dei nova offerti in valutazione a rimuovere il giudicato, a mente dell’art. 631 c.p.p.[4].
In questo caso, secondo tale orientamento, il provvedimento che il giudice di legittimità sarebbe tenuto ad assumere si compendierebbe, infatti, nell’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, con conseguente restituzione degli atti alla stessa Corte di appello che ha emesso il provvedimento viziato, per l’ulteriore corso del procedimento di revisione.
Laddove invece il provvedimento demolitorio facesse seguito alla rilevazione di altro tipo di vizio e, in particolare, all’erroneo disconoscimento, da parte del giudice di merito, dell’integrazione di una delle ipotesi tassative di cui all’art. 630 c.p.p., esso assumerebbe la forma dell’annullamento con rinvio, con applicazione del disposto di cui all’art. 634 comma 2 c.p.p.
Tale distinguo è stato inaugurato da una decisione della Terza Sezione della Suprema Corte intervenuta nell’anno 2019[5] cui si sono, successivamente, “adeguate” diverse altre sentenze[6].
In nessuna delle decisioni menzionate si rintraccia un approfondito scrutinio critico delle ragioni alla base di tale posizione esegetica.
In maniera piuttosto laconica si è, infatti, soltanto precisato che la distinzione risulterebbe confortata dalla struttura sostanzialmente bifasica del giudizio di revisione che si comporrebbe di una fase cosiddetta “rescindente” – nel senso fatto proprio dalle sentenze citate, deputata alla preliminare delibazione di ammissibilità dell’istanza – e in una fase “rescissoria”, riservata all’esame nel merito delle doglianze.
Tale natura “duale” del giudizio di revisione imporrebbe al giudice di cassazione di disporre l’annullamento senza rinvio della declaratoria di inammissibilità, pronunciata a mente dell’art. 634 comma 1 c.p.p., nel caso in cui alla decisione della Corte dovesse seguire la trasmissione degli atti al medesimo giudice a quo «per un rinnovato giudizio relativamente alla fase rescindente»[7], avente ad oggetto «la preliminare delibazione sulla non manifesta infondatezza della richiesta, con riferimento alla astratta capacità demolitoria del giudicato, rilevabile ictu oculi, da parte del novum dedotto»[8].
Al contrario, dovrebbe procedersi ad annullamento con rinvio ad altra Corte di appello, individuata secondo i criteri di cui all’art. 11 c.p.p., solo qualora la decisione della Corte di cassazione imponesse lo svolgimento «del giudizio rescissorio»[9].
È proprio la presa d’atto del consolidamento di tale indirizzo interpretativo che ha sollecitato il giudice rimettente a “provocare” l’incidente di costituzionalità di cui si è dato atto in apertura del precedente paragrafo.
- i quesiti posti all’attenzione del giudice delle leggi
Il giudice rimettente solleva due distinte questioni che pare opportuno trattare separatamente.
In primo luogo, dubita della legittimità dell’art. 634 comma 2 c.p.p. «così come risultante dall’interpretazione innovativa adottata dalla […] Corte di cassazione»[10], per violazione degli artt. 3, 25 comma 1 e 111 comma 2 Cost.
La questione di legittimità costituzionale devoluta postula che la disposizione legislativa censurata sia oggetto di interpretazione consolidata e che questa conduca ad “estrarre” dal tessuto positivo una norma collidente con i parametri costituzionali sopra richiamati.
Come accennato, tre sono i profili di censura esplicitamente dedotti.
La violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge viene ipotizzata in quanto, «nel caso di accoglimento del ricorso avverso l’ordinanza di inammissibilità emessa de plano, il giudice investito del giudizio di revisione muterebbe in base alle valutazione compiute di volta in volta dalla Corte di cassazione, non conoscibili in anticipo»[11].
La violazione del principio di ragionevolezza conseguirebbe, invece, al trattamento differenziato di situazioni omogenee.
Non sussisterebbe, difatti, alcuna ragionevole giustificazione nell’escludere il riconoscimento della rafforzata tutela dell’imparzialità del giudice assicurata dall’art. 634 comma 2 c.p.p. nel caso in cui l’ordinanza di inammissibilità, pronunciata inaudita altera parte, sia cassata dal giudice di legittimità perché contenente una non consentita anticipazione del giudizio di merito. Specie in considerazione del fatto che, invece, tale guarentigia verrebbe riconosciuta in casi in cui l’annullamento dipenda da valutazioni del giudice a quo non implicanti la formazione di un pre-giudizio in ordine alle possibilità di successo dell’impugnazione straordinaria.
Identiche considerazioni sarebbero, infine, alla base della violazione dell’art. 111 comma 2 Cost., sotto il profilo specifico del principio di imparzialità.
Quanto alla seconda questione di costituzionalità posta dal rimettente, si censura l’art. 627 comma 3 c.p.p. «nella parte in cui obbliga il giudice di rinvio a uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa, anche quando tale pronuncia non è meramente interpretativa, ma di fatto sovrascrive la norma creandone una nuova e diversa, talora di fatto abrogandola»[12], per contrasto con gli artt. 70 e 101 Cost.
In questo caso, si sottolinea come l’interpretazione dell’art. 634 comma 2 c.p.p., codificata dalla giurisprudenza di legittimità, risulti eversiva dell’esegesi letterale della norma che non opera alcuna distinzione tra i casi di annullamento dell’ordinanza di inammissibilità de plano, vincolando il giudice di legittimità, in tutte le ipotesi di «accoglimento del ricorso», a disporre il rinvio ad altra Corte di appello, secondo i criteri di cui all’art. 11 c.p.p.
Tale rilievo conduce a ritenere l’obbligo di conformazione al principio di diritto elaborato dal giudice di legittimità, sancito dall’art. 627 comma 3 c.p.p., illegittimo in quanto contrastante sia con l’art. 70 Cost., che attribuisce la funzione legislativa alle Camere, sia con l’art. 101 Cost., che stabilisce la sottoposizione del giudice alla legge.
Gli arresti della giurisprudenza di legittimità vengono, così, qualificati come esorbitanti l’attività interpretativa e conducenti ad operare una sorta di sostituzione del significato semantico della disposizione – o, persino, di “sovrascrittura” del testo di legge – con una norma di nuovo conio.
- La declaratoria d’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
La Corte costituzionale ha ritenuto le due questioni sollevate inammissibili per difetto di rilevanza.
Segnatamente, si è rilevato come nessuna delle due disposizioni censurate fosse destinata a trovare applicazione nel giudizio a quo.
Nel caso dell’art. 634 comma 2 c.p.p., si rileva trattarsi di disposizione normativa destinata a governare l’epilogo del giudizio di cassazione e, dunque, a ricevere diretta applicazione esclusivamente da parte della Suprema Corte.
Nel caso dell’art. 627 comma 3 c.p.p., sono due i rilievi che conducono all’identico esito.
Il primo concerne la rilevazione dell’errore compiuto dal giudice rimettente nell’individuazione della norma sospettata di illegittimità costituzionale.
La Corte di appello rimettente era stata investita del giudizio di revisione in conseguenza di un precedente annullamento senza rinvio operato dalla Corte di cassazione. Quest’ultima, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale criticato dal giudice a quo, aveva cassato la precedente ordinanza di inammissibilità de plano,rilevando che il giudizio preliminare di astratta idoneità dell’istanza di revisione avesse debordato dai limiti consentiti nell’ambito della cosiddetta fase rescindente, finendo con l’assumere il tenore di una disamina del merito dell’impugnazione, consentita solo all’esito del contraddittorio tra le parti.
Da qui l’inapplicabilità dell’art. 627 comma 3 c.p.p., in quanto disposizione disciplinante, in via esclusiva, il giudizio di rinvio e non quello conseguente ad annullamento senza rinvio.
Si aggiunge che, quand’anche si versasse in tema di giudizio di rinvio, non sarebbe il vincolo di conformazione al precedente interno, di cui al comma 3 dell’art. 627 c.p.p., a venire in rilievo, bensì il principio di irretrattabilità del foro commissorio, di cui al comma 1 della stessa disposizione di legge.
Si tratta di osservazioni che, indubbiamente, colgono nel segno.
Va, tuttavia, osservato che, al netto dell’equivoco in cui è incorso il giudice rimettente nella corretta individuazione del comma dell’art. 627 c.p.p. da censurare, qualche perplessità suscita l’implicita delimitazione, che sembrerebbe trarsi dalle parole della Consulta, della portata vincolante del foro commissorio ai soli casi di annullamento con rinvio.
Se infatti nessuna norma positiva stabilisce tale regola con riferimento all’ipotesi dell’annullamento senza rinvio, è lecito dubitare che il giudice di merito al quale la Corte di cassazione esplicitamente indirizzasse gli atti per l’ulteriore corso del procedimento sia legittimato a declinare la propria competenza.
La natura di organo di vertice dell’ordinamento giudiziario e del sistema delle impugnazioni penali della Suprema Corte e la correlata assenza di strumenti di impugnazione (ordinari) delle sue decisioni, implica che le sue sentenze configurino un accertamento definitivo sulla materia controversa, come tale non ulteriormente riponibile in discussione[13].
Pertanto, nel caso in cui dalla scelta del provvedimento terminativo del giudizio di legittimità la Suprema Corte abbia esplicitamente fatto discendere delle conseguenze in punto di individuazione del giudice competente per l’ulteriore corso del procedimento, è quantomeno opinabile sostenere che una simile statuizione non esplichi un effetto preclusivo sullo spettro dei poteri a disposizione del giudice di merito, in assenza di nuovi elementi che possano condurre a una diversa considerazione delle norme attributive di competenza.
Tale conclusione, peraltro, non pare doversi necessariamente correlare a una lettura estensiva o analogica di quanto disposto dall’art. 627 comma 1 c.p.p., in quanto costituente diretto corollario del connotato di irrevocabilità e incensurabilità tipico delle decisioni della Corte di cassazione[14].
Non si trascuri, inoltre, di rilevare come l’art. 25 c.p.p., senza operare distinzioni di sorta, preveda espressamente la portata vincolante della decisione della Corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza, in difetto di nova.
Se è vero che la disposizione citata è specificamente dettata con riferimento alle questioni di giurisdizione e di competenza che siano state lo specifico oggetto della decisione di legittimità, non è men vero che essa rappresenti un utile addentellato normativo per regolare situazioni – come il caso di specie – che sfuggono a una regolamentazione legislativa di dettaglio e, comunque, il punto di emersione positivo di un principio generale immanente nel sistema delle impugnazioni penali.
Per tali ragioni, anche se nel caso di specie il giudice rimettente ha certamente errato nel censurare formalmente l’art. 627 comma 3 c.p.p., in luogo del comma 1 della stessa disposizione, e nel non richiamare la natura di regola deducibile dai principi generali dell’ordinamento processuale della irretrattabilità del foro commissorio, non pare azzardato esprimere minori certezze di quelle ostentate dal giudice delle leggi nel qualificare come irrilevante la seconda questione posta alla sua attenzione, forse meritevole di qualche riflessione aggiuntiva.
- Il “messaggio in bottiglia” affidato dalla Consulta alle pagine della propria motivazione
Come accennato, le ragioni di maggior interesse della pronuncia costituzionale in esame non sono, però, da ravvisarsi nel suo esito decisorio ma, piuttosto, nell’obiter dictum riportato dal giudice delle leggi quasi in chiusura della motivazione.
Dopo avere ricostruito i termini della questione di costituzionalità formulata rispetto all’art. 634 comma 2 c.p.p., a partire dall’indirizzo della giurisprudenza di legittimità in precedenza tratteggiato, si segnala infatti esplicitamente come «le censure della Corte rimettente colgono effettivi profili problematici dell’orientamento interpretativo in questione».
Affermazione, questa, che prelude a più ampie riflessioni del giudice costituzionale.
Punto di partenza è la constatazione secondo cui la riscrittura legislativa delle norme attributive della competenza per il giudizio di revisione (artt. 633 comma 1 e 634 comma 2 c.p.p.), attraverso l’innesto di un esplicito rinvio ai criteri tabellari di cui all’art. 11 c.p.p., pur non integrando una «soluzione costituzionalmente necessaria ai fini del rispetto del principio di imparzialità», certamente configurino un «più ampio e incisivo»[15] strumento di attuazione di tale principio.
Ne discende che il distinguo, fattosi strada nel diritto vivente, tra annullamento con rinvio e annullamento senza rinvio, quale criterio idoneo a delimitare l’applicabilità della previsione di cui all’art. 634 comma 2 c.p.p. solo al primo caso, «non appare coeso con la ratio legis»[16].
Ciò in quanto «reputando manifestamente infondata la richiesta di revisione sulla base di un approfondito vaglio di merito dei nuovi elementi (pure non consentito nella fase rescindente), la Corte d’appello si “espone” di più, in termini di manifestazione del proprio convincimento, che non dichiarando la stessa richiesta inammissibile sulla base, ad esempio, di un errore di diritto nella lettura del concetto di «nuove prove» rilevanti ai sensi dell’art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.; ipotesi nella quale la Cassazione annullerebbe la pronuncia con rinvio per l’espletamento della fase rescissoria, con conseguente operatività della regola dello spostamento di sede enunciata dalla norma censurata»[17].
Si aggiunge, infine, che la soluzione esegetica affermatasi nella giurisprudenza di legittimità, come dedotto dal giudice rimettente, incorrerebbe nella controindicazione di riproporre gli «elementi di incertezza preventiva sulla individuazione del giudice che, dopo l’annullamento dell’ordinanza di inammissibilità, dovrà occuparsi del giudizio»[18] che la novella del 1998 si era, invece, proposta di diradare.
Non v’è dubbio che il tenore di questo obiter dictum segnali agli interpreti, in termini tutt’altro che evasivi, l’esistenza di rilevanti motivi per sospettare della costituzionalità della norma, quantomeno sotto il profilo della sua ragionevolezza e, dunque, della conformità all’art. 3 Cost.
In questo senso milita l’esplicito accento posto dal giudice delle leggi sul disallineamento della soluzione ermeneutica fatta propria dalla Corte di cassazione rispetto allo spirito della novella, nonché – e, forse, in particolar modo – il rilievo circa la dubbia coerenza degli esiti cui conduce un simile approccio rispetto all’obiettivo, perseguito dal richiamato intervento legislativo, di offrire una tutela rafforzata del principio di imparzialità del giudice della revisione.
È, in effetti, arduo comprendere le ragioni che giustificherebbero la mancata applicazione della disposizione di cui all’art. 634 comma 2 c.p.p. nel caso in cui la patologia del provvedimento oggetto di cassazione consista nell’indebita anticipazione del giudizio di merito da parte del giudice a quo, chiamato invece a una mera valutazione di non manifesta infondatezza dell’impugnazione. Ipotesi nella quale – alla luce dell’orientamento di legittimità – la Corte di cassazione disporrebbe l’annullamento senza rinvio, determinando l’ulteriore corso del giudizio di revisione dinanzi alla stessa Corte di appello illegittimamente spintasi in valutazioni suscettive di intaccare – quantomeno sul piano simbolico e della percezione esterna – l’imparzialità del giudice.
Tale situazione, invece, non sarebbe destinata a verificarsi, potendo fruire il ricorrente e il condannato dell’applicazione dell’art. 634 comma 2 c.p.p., in presenza di motivi di annullamento dell’ordinanza di inammissibilità de plano (per stare all’esempio avanzato in sentenza: l’erronea rilevazione di profili di non conformità delle censure dedotte al “catalogo” dell’art. 630 comma 1 c.p.p) in alcun modo incidenti su di essa.
L’interagire della norma dedotta dal diritto vivente con il tertium comparationis individuato dalla Corte costituzionale renderebbe, dunque, evidente come un trattamento deteriore sia riservato a disciplinare le situazioni concrete che, invece, richiederebbe una più penetrante salvaguardia dell’imparzialità del giudice, di cui all’art. 111 comma 2 Cost., in palese controtendenza con il principio di ragionevolezza implicato dalla corrente lettura dell’art. 3 Cost.
Neppure può trascurarsi il rilievo, contenuto nel medesimo passaggio argomentativo sopra richiamato, alle incertezze in ordine alla preventiva individuazione del giudice competente che l’orientamento esegetico richiamato sembra generare.
Deve, tuttavia, riconoscersi, sotto questo profilo e, in particolare, avuto riguardo ai dubbi di legittimità riferibili alla violazione dell’art. 25 comma 1 Cost., come le indicazioni della Consulta appaiano assai meno incisive di quelle riferite alla possibile irragionevolezza della norma.
Alla stregua dell’indirizzo sopra richiamato, non appare, in effetti, poi così difficile per colui il quale proponga ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di inammissibilità de plano dell’istanza di revisione prospettarsi il possibile esito del giudizio, a seconda delle censure articolate.
- Scenari futuri
Quello rivolto dalla Corte costituzionale appare un “avviso ai naviganti” piuttosto chiaro: il consolidarsi dell’orientamento interpretativo posto dal giudice rimettente alla base della lettura dell’art. 634 comma 2 c.p.p. potrebbe condurre alla declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione, quantomeno, per contrasto con gli artt. 3 e 111 comma 2 Cost.
Ciò pone gli interpreti dinanzi a un’alternativa piuttosto netta: quella di rivedere l’orientamento interpretativo suddetto ovvero correre il rischio di incorrere in una pronuncia di illegittimità del giudice delle leggi, con ogni probabilità da ascriversi nel genus delle sentenze additive di garanzia, volta ad assicurare un’applicazione generalizzata del comma 2 dell’art. 634 c.p.p. Più difficilmente potrebbe, infatti, prospettarsi una sentenza interpretativa di rigetto, tenuto conto che il presupposto logico di una questione correttamente formulata non potrebbe che fondarsi sul rilievo dell’ormai definitiva cristallizzazione di una esegesi della disposizione di segno contrario.
Tale secondo scenario è certamente quello meno probabile.
A meno di sorprese, le considerazioni affidate dalla Consulta all’obiter dictum sopra citato appaiono, infatti, sufficientemente stringenti da indurre la Corte di cassazione a una rimeditazione critica della propria giurisprudenza. Tanto alla stregua del sedimentato principio secondo il quale per attivare validamente il giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi non è sufficiente allegare che della disposizione censurata sia possibile dare una interpretazione eversiva dei parametri costituzionali ma è, invece, necessario accertare che alla medesima non si possa attribuire un significato costituzionalmente conforme.
Va, del resto, rilevato che nessuna ragione di ordine pratico osti a una simile rivisitazione, tenuto conto che – come in parte qua correttamente rilevato dall’estensore dell’ordinanza di rimessione – è lo stesso tenore letterale della disposizione richiamata a correlare lo svolgimento dell’ulteriore corso del giudizio di revisione presso «altra Corte di appello individuata secondo i criteri di cui all’articolo 11» al mero «accoglimento del ricorso» interposto avverso l’ordinanza di inammissibilitàpronunciata a mente del comma 1 dell’art. 634 c.p.p.
Trattasi di previsione che, così come formulata, consente di superare la distinzione prefigurata dalla cassazione tra le ipotesi di annullamento con rinvio e di annullamento senza rinvio, prevedendo quale presupposto della sua operatività il mero esito del giudizio di legittimità in termini favorevoli al ricorrente. Senza neppure considerare la superiore omogeneità di una simile soluzione ermeneutica con lo spirito della novella, tendente – come osservato dal giudice delle leggi – a fornire una tutela rafforzata dell’imparzialità del giudice, destinata a venire maggiormente in rilievo proprio nei casi di illegittimità dell’ordinanza dipendenti dall’indebita anticipazione – in quella sede – di apprezzamenti riservati a un momento successivo del giudizio di revisione.
È, pertanto, la stessa esegesi letterale della disposizione ad assicurare la percorribilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, in grado di appianare i “profili problematici” apprezzati e puntualmente segnalati dalla Corte costituzionale.
Non è difficile pronosticare che, presto o tardi, il giudice di legittimità finirà per tornare sui propri passi o, quantomeno, sarà chiamato a prendere esplicitamente posizione sul punto.
- Considerazioni conclusive
Nonostante sia probabile che la Suprema corte pervenga a un ripensamento per le ragioni sopra indicate, non pare azzardato rilevare come l’opportunità di un overruling dell’orientamento in questione si ponga anche al di là e a prescindere da considerazioni di ordine costituzionale.
A identico risultato è, infatti, possibile pervenire alla luce di rilevanti profili di ambiguità, per così dire, “interni” al percorso ermeneutico tratteggiato dalla Suprema corte nel distinguere l’ipotesi di annullamento con rinvio, che farebbe “scattare” la previsione di cui all’art. 634 comma 2 c.p.p., da quella di annullamento senza rinvio del provvedimento di inammissibilità de plano dell’istanza di revisione, che, invece, ne determinerebbe l’inapplicabilità.
Se ben si comprende dalla lettura delle decisioni di riferimento, tale distinzione discenderebbe dal fatto che, nel primo caso, il provvedimento demolitorio implicherebbe la regressione del giudizio di revisione nella “fase rescissoria”; nel secondo caso, all’annullamento seguirebbe l’ulteriore corso del procedimento nella “fase rescindente”[19].
Se la ratio decidendi alla base dell’orientamento di legittimità è stata correttamente messa a fuoco, non può farsi a meno di rilevare come essa appaia dissonante con la configurazione del giudizio di revisione introdotta dal codice del 1989, in quanto irragionevolmente “attardata” su una architettura del procedimento propria del regime previgente.
Nonostante esso seguiti ad avere struttura bifasica, in quanto ripartito in due moduli procedimentali – il primo, condotto de plano, e relativo a una valutazione preliminare di ammissibilità avente ad oggetto la non manifesta infondatezza dell’istanza di revisione; il secondo, in contraddittorio, volto a sondare il merito dell’istanza di revisione – è del tutto arbitrario seguitare a considerarlo segmentato in una fase rescindente e in una rescissoria.
Tanto in virtù della semplice considerazione, peraltro chiaramente e da lungo tempo posta in luce dalla dottrina[20], secondo la quale il vaglio preliminare di ammissibilità, previsto dall’art. 634 comma 1 c.p.p., non soltanto è attribuito al medesimo giudice competente a decidere sul merito della revisione ma, soprattutto, la sua positiva conclusione non implica la revoca del giudicato, dunque non esplica effetti rescindenti sul provvedimento impugnato in via straordinaria[21].
Questi, infatti, conseguono, solo all’esito del giudizio di merito, all’accoglimento della richiesta di revisione, a mente dell’art. 637 comma 2 c.p.p. [22].
Detto altrimenti, il codice vigente «non distingue tra fase rescindente e fase rescissoria, ma attribuisce l’intero giudizio di revisione alla Corte di appello»[23] designata a norma di legge.
In questo senso depone finanche l’art. 635 c.p.p. che consente – «in qualunque momento» – la provvisoria sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza nei confronti del condannato. Previsione che costituisce un rimedio eccezionale a situazioni di ingiustizia sostanziale, ragionevolmente correlate all’apprezzamento di un fumus di fondatezza dell’impugnazione ma che sarebbe del tutto inconciliabile, anzitutto sul piano logico-sistematico, con l’atteggiarsi del vaglio di preliminare ammissibilità della revisione in termini di atto dotato di efficacia rescindente.
Diversamente, nel regime del codice abrogato alla struttura bifasica del giudizio corrispondeva non solo una diversificazione della competenza funzionale, ripartita tra la Corte di cassazione e la Corte di appello, ma, altresì, una diversa sagomatura del rispettivo ambito di cognizione e di apprezzamento: un giudizio rescindente quello attribuito alla prima, un giudizio rescissorio – in eventum, cioè in caso di esito positivo del primo – ascritto alla seconda[24].
Aver traslato nel “nuovo” contesto normativo una concezione del procedimento di revisione peculiare della disciplina ormai abrogata è alla base del discrimen individuato dal più recente indirizzo di legittimità tra casi di annullamento con rinvio e senza rinvio.
Una distinzione che, tuttavia, cessa di avere significato preso atto che il giudizio di revisione è, de iure condito, demandato a una valutazione unitaria e omnicomprensiva del giudice della revisione.
Perseverare nel segmentare il giudizio in un momento rescindente e in un momento rescissorio, equivale, invece, a riproporre un retaggio del passato che, non prestandosi a descrivere l’attualità, anzi offrendone una chiave di lettura deformante, è foriero delle ambiguità interpretative e degli esiti paradossali, ad esse conseguenti, puntualmente rilevati dal giudice costituzionale.
Sgomberato il campo da tali suggestioni, a parere di chi scrive, la cassazione dell’ordinanza emessa nella fase di preliminare delibazione dell’ammissibilità dell’istanza di revisione, per avere il relativo giudice compiuto apprezzamenti esorbitanti questa fase, dovrebbe essere disposta mediante annullamento con rinvio e soggiacere, per l’effetto, al criterio attributivo di competenza di cui all’art. 634 comma 2 c.p.p., come – del resto – la disposizione sembra, expressis verbis, suggerire.
Proprio alla luce della unitarietà e dell’ampiezza del sindacato attribuito al giudice della revisione non pare, infatti, che alla rilevazione, da parte della Corte di cassazione, del vizio in questione possa seguire né una decisione a puro effetto rescindente né un giudizio rescissorio contestuale[25], tali da determinare la superfluità del giudizio di rinvio.
La prima ipotesi appare preclusa dalla necessità che, accertata l’insussistenza della causa di inammissibilità erroneamente rilevata in prima battuta, l’istanza di revisione sia oggetto del più ampio scrutinio demandato alla Corte di appello competente.
Quanto alla seconda alternativa, essa appare incompatibile con la natura di impugnazione di merito propria della revisione, la cui disamina è, peraltro, necessariamente posticipata all’esito delle attività dibattimentali (ivi incluse quelle di tipo istruttorio, da svolgersi in contraddittorio) che hanno luogo una volta superato il vaglio di preliminare ammissibilità dell’istanza.
Con ogni probabilità, sarebbe, dunque, sufficiente riportare in avanti le lancette dell’orologio e abbandonare inveterati stilemi interpretativi, ormai definitivamente superati e quindi meritevoli di essere accantonati, per ovviare, ancor prima che ai dubbi di legittimità rilevati dalla Corte costituzionale, all’evidente asimmetria sistematica che contraddistingue l’orientamento giurisprudenziale attualmente in auge.
[1] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[2] In tal senso, Sez. un., 26 settembre 2001, n. 624, in Cass. Pen. 2002, p. 1952 ss.; Sez. III, 9 luglio 2015, n. 34945; Sez. V, 27 aprile 2022, n. 16218; contra ma rimasta isolata, Sez. III, 22 gennaio 2003, n. 11040, in dir. pen. proc. 2006, p. 580 con nota di leo.
[3] Nel senso che il ne bis in idem costituisca un «diritto civile e politico dell’individuo», tra molte, v. Sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655, Donati e altro, in Cass. pen., 2006, 68. Analogamente, per tutti, v. Pisani, Abolitio criminis e sospensione condizionale della pena in sede esecutiva, in Cass. pen., 2004, 2186; Galantini, Il divieto del doppio processo come diritto della persona, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, 97. Più di recente si veda Sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, in Cass. pen., 2015, ss. Nel senso che esso costituisca un aspetto caratteristico della procedura penale pressoché universale ed esistente in tutti i Paesi di tradizione liberale, v. De Luca, Limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Giuffrè, 1963, 73 ss.; Lozzi, Giudicato (diritto penale), in Enc. dir., vol. XXVIII, Giuffrè, 1969, 913 ss. Si veda anche E. M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Giuffrè, 2012, 505 ss.; nonché Galantini, Il principio del ne bis in idem internazionale nel processo penale, Giuffrè, 1984, 3, nt. 6.
[4] La giurisprudenza ha, del resto, ormai compattamente chiarito come «la delibazione prognostica, proprio per la sua intrinseca natura e connotazione, non può, tuttavia, tradursi in un’approfondita valutazione probatoria dei fatti e in un’illegittima anticipazione del conclusivo giudizio di merito, che va effettuato con le garanzie del contraddittorio e alla stregua di una dimostrazione di fondatezza delle ragioni poste a base della domanda secondo la più ampia regola liberatoria stabilita dall’art. 631, in riferimento a tutte le fattispecie assolutorie stabilite dall’art. 530 c.p.p.». Così, Sez. I, 25 febbraio 2011, n. 37194; nello stesso senso, tra molte, Sez. II, 26 aprile 2022, n. 24324; Sez. VI, 16 gennaio 2019, n. 13825; Sez. V, 26 giugno, 2018, n. 44925; Sez. IV, 26 aprile 2018, n. 24436; Sez. I, 9 maggio 2017, n. 42237; Sez. III, 16 dicembre 2014, n. 282.
[5] Sez. III, 17 luglio 2019, n. 43121.
[6] Sez. V, 11 dicembre 2020, n. 6979; Sez. II, 3 febbraio 2021, n. 19648; Sez. II, 26 aprile 2022, n. 24324.
[7] Sez. III, 17 luglio 2019, n. 43121.
[8] Sez. III, 17 luglio 2019, n. 43121.
[9] Sez. III, 17 luglio 2019, n. 43121.
[10] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[11] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[12] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[13] Ex plurimis, Corte cost., sentenza, 5 luglio 1995, n. 294
[14] In questo senso, sembrerebbe peraltro muoversi un ampio filone giurisprudenziale, secondo io quale: «le sentenze della Corte di cassazione, anche se delle singole sezioni, non sono impugnabili. Ne consegue che la Corte di cassazione, nel verificare le sentenze di un giudice d’appello emesse a seguito di un annullamento di precedente sentenza, con o senza rinvio, non può mai mutare le precedenti statuizioni contenute nella precedente sentenza di annullamento, neppure relativamente alle nullità eventualmente verificatesi in fase antecedenti, ormai coperte dal giudicato». Così, Sez. VI, 15 febbraio 1994, n. 5617. In senso analogo, più di recente, v. Sez. V, 12 ottobre 2017, n. 53200, in parte motiva, secondo cui «il giudice a cui gli atti vengono trasmessi a seguito di sentenza emessa ex art. 620 c.p.p., è obbligato a uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per quanto concerne ogni questione di diritto con essa decisa»; nonché Sez. III, 26 novembre 2019, n. 8780.
[15] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[16] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[17] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[18] Corte cost., sentenza, 25 maggio 2023, n. 103.
[19] Cfr. retro sub note nn. 5 e 6; nonché, tra molte, Sez. IV, 17 dicembre 2021, n. 46837, secondo la quale «caratteristica peculiare del giudizio di revisione è quella della distinzione logico-funzionale tra la fase rescindente – che ha ad oggetto la preliminare delibazione sulla ammissibilità e sulla non manifesta infondatezza della richiesta […] – e quella successiva, c.d. rescissoria, che si instaura mediante la citazione del condannato e nella quale il giudice è tenuto a procedere alla celebrazione del giudizio con le forme e le modalità di assunzione della prova nel contraddittorio proprie del dibattimento»; Sez. III, 13 aprile 2016, n. 15402.
[20] Ex plurimis, Bronzo, Il giudizio di ammissibilità nel nuovo procedimento di revisione: requisiti sostanziali della richiesta e non manifesta infondatezza, in Cass. pen., 1998, p. 904 ss.; Cordero, Procedura penale, 2012, IX ed., p. 1220; Nappi, Guida al codice di procedura penale, Giuffrè, X ed., 2007, p. 994; Bargis, Impugnazioni, in Compendio di procedura penale, a cura di Conso – Grevi, Cedam, V ed., 2010, p. 1021; Furgiuele, Le impugnazioni straordinarie, in Manuale di diritto processuale penale, Aa. Vv., Giappichelli, 2017, p. 840.
[21] L’assenza «di un vero e proprio giudizio rescindente» è stata, del resto, chiaramente notata in parte motiva da Sez. un., 26 settembre 2001, n. 624, in Cass. Pen. 2002, p. 1952 ss.
[22] In tal senso, v. Bronzo, Il giudizio di ammissibilità, cit., p. 906, il quale acutamente rileva: «il giudizio rescindente scompare come fase preliminare a sé stante: il momento rescindente, considerando tale la revoca della sentenza di condanna prevista dall’art. 637 comm2 c.p.p., si colloca nell’ambito del giudizio di revisione vero e proprio, quando e se risulti fondata la domanda».
[23] Nappi, Guida al codice di procedura penale, ibidem.
[24] È interessante ricordare, con Bronzo, Il giudizio di ammissibilità, cit. p. 905, che la scelta di superare il modello previgente è, probabilmente, da rapportarsi proprio alle difficoltà, riscontrate nella pratica giudiziaria, di distinguere le due valutazioni «poiché il giudizio rescindente rischiava di confondersi con l’esame delle prove»; di tal che «risultando così in ombra la differenza tra verifica della non manifesta infondatezza della domanda ed esame della fondatezza della stessa, era altissimo il rischio di anticipare, nella delibazione preliminare, valutazioni attinenti al giudizio di merito». Rischio che, alla luce di quanto si è detto e della casistica giurisprudenziale di cui alla precedente nota n. 4 non pare, peraltro, essere stato definitivamente scongiurato neppure dalla “nuova” disciplina.
[25] Il riferimento è alla nota categorizzazione dottrinale delle due tipologie di decisioni di annullamento senza rinvio, che si deve a Cordero, Procedura penale, cit., p. 1159 ss.