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Un orientamento giurisprudenziale problematico in tema di “minore gravità” nei reati di violenza sessuale (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 35303 del 22 agosto 2023)

Abstract: Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, si è riconosciuta l’operatività della circostanza attenuante della minore gravità del fatto nei reati di violenza sessuale solo quando lo stesso si presenti, in base a una valutazione complessiva, scarsamente lesivo. Si tratta di un’interpretazione contraria ai principi di offensività, proporzionalità ed esigenza rieducativa della pena, oltre che non conforme alla lettera della legge e al complessivo sistema di circostanze attenuanti.

According to the consolidated orientation of jurisprudence, the application of the circumstance of the lesser seriousness of the fact in crimes of sexual violence has been recognized only when it appears, based on an overall assessment, to be of little harm. This is an interpretation opposite to the principles of offensiveness, proportionality and re-educational need of the sentence, as well as not compliant with the letter of the law and the overall system of mitigating circumstances.

  1. Introduzione

La sentenza in commento si colloca nel solco di un indirizzo consolidato della Corte di Cassazione relativo ai presupposti necessari per il riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità di cui all’art. 609 bis co. 3. c.p.

Com’è noto, con l. 15 febbraio 1996 n. 66 si è provveduto a riformare la materia dei reati di violenza sessuale, ispirata a valori e logiche divenute inattuali a seguito della caduta del fascismo e con l’avvento della Costituzione repubblicana.

La tutela delle libertà, nell’ideologia del legislatore del 1930, si collegava alla salvaguardia dello status che il regime attribuiva ad ogni cittadino, che era tenuto a contribuire al progresso sociale: in questo modo si spiega come oggetto di tutela fossero la moralità pubblica e il buon costume di cui al titolo IX del codice Rocco.

La distinzione tra atti di violenza carnale, che si realizzava solo nel caso di congiunzione carnale, ed atti di libidine violenti conseguiva lo scopo di differenziare, da un punto di vista oggettivo, le modalità di aggressione dei beni giuridici tutelati, e di conseguenza prevedere sanzioni diverse.

2. La riforma del 1996

Già prima dell’intervento riformatore del 1996, dottrina e giurisprudenza avevano provveduto a interpretare evolutivamente la disciplina anacronistica dei reati contro la violenza sessuale, adeguandola ai valori democratici della Costituzione, e rivalutando la libertà sessuale come bene personale fondamentale, non più visto come funzionale all’evoluzione della società.

In tale prospettiva la riforma appare codificare l’interpretazione giurisprudenziale recente, abrogando il capo I del titolo IX e assorbendo in un’unica fattispecie di reato – contenuta nel titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona, all’art. 609 bis, rubricato “violenza sessuale” – i delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti.

Al di là di una corretta individuazione del bene giuridico, la riforma era sollecitata dall’esigenza di tutelare la vittima di atti sessuali nel procedimento penale[1]: la circostanza che si dovesse procedere tramite accertamenti anche molto invasivi dell’intimità delle vittime, volti a verificare se il fatto rientrasse nell’ambito dell’art. 519 c.p. (e vi fosse cioè congiunzione carnale) oppure si configurassero gli atti di libidine violenti di cui all’art. 521, significava sottoporle a ulteriori ingerenze nella sfera privata e umiliazioni, con il conseguente rischio di scoraggiare le denunce.

Alla predisposizione di un’unica fattispecie di violenza sessuale consegue che il disvalore criminoso si incentri maggiormente sull’offesa arrecata all’autodeterminazione della persona, risultando secondarie le modalità di estrinsecazione della violenza[2].

3. La prospettiva europea

La ritenuta necessità di imperniare la fattispecie tipica sulla base della mancanza del consenso, e non delle concrete modalità esecutive, e l’obiettivo di evitare forme di vittimizzazione secondaria sono stati da tempo avvertiti anche in seno al Consiglio d’Europa: nel 2011 gli Stati membri hanno firmato la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, dove, all’art. 36, si stabilisce che le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i responsabili, tra gli altri, di atti sessuali compiuti su una persona “senza il suo consenso”.

La menzionata disposizione è finalizzata ad eliminare l’onere della prova della violenza: il fatto che si parli di mancanza del consenso, e non di costrizione, fa si che l’accusa debba solo fornire la prova di tale mancanza di consenso.

A quanto detto, si aggiunga che la Corte europea dei diritti dell’uomo, in ossequio all’art. 36 della Convenzione di Istanbul, da quasi venti anni (si pensi in tal senso al caso M.C. v. Bulgaria, 4 dicembre 2003) afferma che gli Stati membri hanno sia l’obbligo positivo “di perseguire e reprimere effettivamente ogni atto sessuale non consensuale, ivi compreso quello in cui la vittima non ha opposto resistenza fisica”[3], sia quello di applicare la legislazione attraverso indagini e procedimenti giudiziari efficaci[4].

4. L’attenuante della minore gravità

Se il quadro normativo nazionale e sovranazionale spinge nel senso di escludere che l’accertamento della violenza sessuale possa risolversi in forme di vittimizzazione secondaria della persona offesa[5], seri dubbi ha posto la previsione di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p.[6], che com’è noto dispone una circostanza attenuante speciale, ad effetto speciale e generica, per cui nei casi di minore gravità la pena è ridotta in misura non eccedente i due terzi. Nella mens legis, alla previsione di un unico reato di violenza sessuale andava accompagnato uno strumento che consentisse al giudice di graduare le conseguenze sanzionatorie legate alle più o meno gravi condotte riconducibili alla fattispecie[7], ma l’effetto rischiava di essere un ritorno al dualismo tra violenza carnale e atti di libidine violenti, in quanto solo questi ultimi sarebbero stati suscettivi di rientrare nell’ambito applicativo dell’attenuante, e di conseguenza si sarebbe eluso lo scopo di precludere indagini troppo minuziose sulla consistenza e svolgimento della vicenda e della violenza sessuale[8].

4.1. La giurisprudenza in tema di minore gravità

La giurisprudenza, in maniera unanime, sembra essersi fatta carico delle perplessità riscontrate, e ha relegato il riconoscimento della circostanza attenuante alle ipotesi in cui vi sia particolare lievità del fatto. Vengono considerati quali indici di valutazione della minore gravità i parametri di cui all’art. 133 co. 1 c.p., incidenti sulla materialità del fatto e sulle modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa, nonché sulle conseguenze lesive arrecate alla persona offesa[9]. In più occasioni la Corte di Cassazione ha rinvenuto la violazione, da parte del giudice di merito, dei principi giuridici affermati in materia di criteri applicativi della circostanza in esame, quando il giudice aveva concesso l’applicazione della attenuante in base a singoli indici di levità e non in base a una valutazione complessiva ex art. 133 co. 1 c.p. Si argomenta sostenendo che non è sufficiente, ai fini del riconoscimento della minore gravità, che non vi sia stata congiunzione carnale, in quanto, in caso contrario, si tornerebbe a operare la distinzione tra violenza carnale e atti di libidine violenti, superata dal legislatore anche per dare maggiore peso alle conseguenze particolarmente lesive che atti sessuali, ancorché non integranti violenza carnale, possono comportare alle vittime[10].

Dunque, la violenza sessuale di minore gravità, a dire della Cassazione, è tale solo quando, in base a tutti gli indici posti come parametro valutativo, sia ravvisata una complessiva scarsa entità del fatto. Anche la gravità di un singolo indice è idonea ad escludere la minore gravità, cosa invero piuttosto frequente, considerando le conseguenze particolarmente lesive, anche a lungo termine, che un atto sessuale, anche obiettivamente poco rilevante, può comportare a danno della vittima.

Questa è la posizione che la sentenza in esame eredita dalla rigorosa giurisprudenza precedente, secondo cui nell’accertamento della minore gravità “deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità”[11].  

Il riconoscimento della minore gravità avrà dunque luogo solo quando il fatto si presenti, in base a una valutazione complessiva, scarsamente lesivo.

4.2. Considerazioni critiche

La soluzione giurisprudenziale pare poco convincente per una serie di ragioni. L’esigenza di graduare la pena alla gravità del fatto rappresenta espressione dei principi di offensività, di proporzionalità, nonché del principio della funzione rieducativa della pena.

L’offensività opera non solo in senso qualitativo, escludendo la tipicità di condotte apparentemente conformi alla fattispecie tipica, ma inoffensive per i beni giuridici tutelati[12]; ma anche in senso quantitativo, esprimendo l’esigenza di graduare la pena in rapporto alla concreta portata lesiva dei fatti[13].

Il legislatore, oltre a stabilire i limiti edittali entro i quali il giudice può muoversi per stabilire la pena in concreto applicabile, servendosi degli indici stabiliti all’art. 133 c.p., prevede circostanze che aggravano o diminuiscono la pena attraverso la valutazione di elementi ulteriori, utili ad adeguare la sanzione all’entità del fatto.

Tra le circostanze che attenuano la pena in base alla scarsa portata offensiva della condotta possono annoverarsi la lieve entità, prevista agli artt. 73 co. 5 (divenuta, a partire dal d.l. n. 146/2013 – convertito con modifiche dalla l. n. 10/2014 – una fattispecie autonoma di reato) e 74 co. 6 d.P.R. n. 309/1990; la particolare tenuità, di cui all’art. 648 co. 4 c.p.; la minore gravità di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p.

Il fatto che la legge si serva di nomina diversi per individuare le varie tipologie di circostanze che attenuano la pena non sembra essere casuale: ad esse pare corrispondere una diversa valutazione che l’interprete deve effettuare per accertare la sussistenza dei presupposti. A favore di tale affermazione depongono le profonde differenze che intercorrono in punto di riduzione di pena da applicare. Nel caso di lieve entità, ai sensi dell’art. 73 co. 5 t.u. stupefacenti, viene operata una rideterminazione dei limiti edittali: dalla pena della reclusione dai 6 ai 20 anni prevista in base al co. 1 dell’art. 73, il ricorrere della lieve entità del fatto determina una netta decurtazione del quantum della stessa, che ora è compresa tra i 6 mesi e i 5 anni di reclusione; di conseguenza il giudice, nell’accertare la lieve entità, è tenuto a una considerazione della complessiva scarsa gravità del fatto, che deve presentare un disvalore nettamente inferiore rispetto alla fattispecie di cui al primo comma. Allo stesso modo, l’art. 74 co. 6 dispone una ridefinizione dei limiti edittali del reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: al co. 1 è prevista la pena della reclusione non inferiore a vent’anni per l’associato che promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione, e non inferiore a 10 anni se si tratta di mero partecipe; se l’associazione commette i reati di cui al co. 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, cioè fatti connotati da lieve entità, la pena è nettamente diminuita, giacché si considerano i ben più modesti limiti edittali dell’art. 416 c.p., che prevede la reclusione da 3 a 7 anni per gli organizzatori, promotori, costitutori, e da 1 a 5 per i partecipi; quando vi è particolare tenuità in base all’art. 648 co. 4 c.p., invece, il fatto può essere anche piuttosto prossimo alla fattispecie ordinaria, prevedendosi solo un limite edittale massimo di 6 anni, a fronte del limite di 8 previsto per il reato base.

La particolare tenuità può dunque ravvisarsi tanto quando il fatto presenti indici di lesività nettamente ridotti rispetto al reato ordinario, quanto nei casi in cui anche un singolo indice di minore gravità consenta una sensibile riduzione della sanzione; d’altro canto, il legislatore si occupa di descrivere una violenza sessuale connotata da minore gravità, all’art. 609 bis co. 3 c.p., stabilisce che la riduzione di pena è fino ai due terzi, ciò significando che il giudice potrà ritenere opportuna, con l’applicazione della circostanza attenuante, la detrazione anche di un singolo giorno dalla pena stabilita, quando si configurano casi di violenza sessuale di minore gravità anche piuttosto prossimi alla fattispecie di reato ordinaria.

Si tratta di scelte legislative che rispondono all’esigenza di differenziare la risposta sanzionatoria in modo che risulti proporzionata al grado di offesa arrecato al bene giuridico tutelato: il principio di proporzionalità, infatti, postula che a fatti di differente disvalore corrispondano pene di diversa entità.

La Consulta ha tradizionalmente effettuato il controllo di legittimità sulla proporzionalità della pena sotto il profilo dell’uguaglianza, ex art. 3 Cost.[14], e, a partire dagli anni ’90, alla luce dell’esigenza rieducativa cui deve tendere la sanzione penale (art. 27, co. 3 Cost.)[15]. Il sindacato costituzionale non presuppone necessariamente un confronto tra la pena prevista per un certo reato e quella stabilita per uno diverso: il principio di proporzionalità ben può risultare violato anche in base a un semplice raffronto tra la gravità delle condotte rientranti nell’ambito della fattispecie astratta e le conseguenze sanzionatorie[16].

Nella determinazione astratta della pena, che deve atteggiarsi come risposta adeguata alla concreta gravità del reato, il legislatore deve rispettare il parametro della proporzionalità.

Quando la legge predispone circostanze attenuanti che consentono di adeguare la sanzione in base all’entità del singolo fatto, come avviene nei casi sopra riportati – sia pure con valutazioni differenti – il giudice è tenuto a riconoscere l’attenuazione di pena al ricorrere dei presupposti, nel rispetto del principio di proporzionalità.

Una ricostruzione teleologica e sistematica di questo tipo consente di segnalare una anomalia nella giurisprudenza di legittimità laddove, come in precedenza segnalato, consideri necessaria, al fine di riconoscere la minore gravità della violenza sessuale, una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità.

Risulta evidente, infatti, che i singoli elementi oggetto della valutazione del giudice siano idonei a incidere anche minimamente sulla riduzione della pena, laddove la sussistenza di una complessiva minore gravità, risultante da una valutazione di tutti gli indici, come richiesta dalla Cassazione ai fini del riconoscimento della attenuante in esame, determinerebbe una netta riduzione della pena prevista dal co. 1.

Il dato letterale depone in senso contrario rispetto alla prassi giurisprudenziale, giacché l’art. 609 bis co. 3 c.p. dispone la riduzione di pena da un giorno ai due terzi, imponendo, di conseguenza, il riconoscimento dell’attenuante anche a fronte di una violenza sessuale complessivamente grave, ma connotata da singoli indici di lievità che, nell’ottica di un migliore adeguamento della pena alle esigenze rieducative del reo, possono incidere sulla quantificazione della sanzione, anche in ossequio al principio di proporzionalità tra reato e pena.

Con l’argomento letterale converge il rilievo sistematico che, come sopra riportato, esorta a differenziare le valutazioni che devono essere compiute in base alle diverse circostanze attenuanti che disciplinano ipotesi di lieve entità, minore gravità o particolare tenuità. Pare, infatti, evidente come la giurisprudenza, in sede di accertamento della minore gravità della violenza sessuale, compia un’indagine sul significativo minore disvalore del fatto, simile a quella relativa alle ipotesi di lieve entità descritte nel d.P.R. n. 309/1990  (tra l’altro affermandolo talvolta espressamente)[17], che tuttavia sono profondamente diverse nella sostanza e nelle intenzioni del legislatore, che intende in questi casi descrivere fattispecie di reato che per scarsa lesività si collocano molto distanti dalle ipotesi base.

È estranea a quanto sinora detto la considerazione della Corte circa il fatto che non sia ostativo al riconoscimento della circostanza attenuante il rapporto gerarchico tra professore e alunno, proprio perché l’abuso di autorità rappresenta elemento costitutivo della fattispecie, e non indice rilevante ai fini della valutazione della minore gravità[18]. Viene quindi superato l’automatismo che impediva il riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità ove il reato di violenza sessuale fosse commesso da un docente all’interno di un istituto scolastico, fondato sull’idea che si tratta di un luogo nel quale l’alunno deve sentirsi protetto e che, però, rende particolarmente vulnerabile la vittima per il rischio di attenzioni sessuali illecite derivanti dall’approfittamento del rapporto fiduciario intercorrente con l’insegnante.

5. Differenze con l’art. 131 bis c.p.

Vale la pena, a scopo di completezza, rilevare la distinzione che intercorre tra le circostanze attenuanti richiamate e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, l’art. 131 bis c.p.

Quest’ultima presuppone l’accertamento di un fatto tipico (quindi offensivo), antigiuridico e colpevole. L’obiettivo del legislatore è duplice: da un lato, l’art. 131 bis consente di estromettere dall’area della punibilità tutti quei fatti non bisognosi di pena, contribuendo, così, a dare attuazione ai principi di proporzionalità e di extrema ratio della sanzione penale; dall’altro, l’istituto è stato indubbiamente pensato in un’ottica di deflazione processuale.

Se la lesione c’è, ma può essere considerata lieve, il legislatore può rinunciare alla pretesa punitiva, oppure è tenuto a garantire, nel caso di condanna, la possibilità di irrogare una sanzione proporzionata alla minima offensività del fatto, applicando le circostanze attenuanti speciali sopra richiamate.

La minore gravità nella violenza sessuale, così come la lieve entità di cui all’art. 73 co. 5 d.P.R. n. 309/1990 e la “particolare tenuità” ex art. 131 bis c.p. sono concetti normativi non coincidenti, ai quali sono connesse conseguenze profondamente diverse: l’attenuazione del trattamento sanzionatorio, nelle prime due ipotesi, e la non punibilità, nell’altro. Non è ipotizzabile una relazione di necessaria interdipendenza tra le due disposizioni, sicché il riconoscimento della lieve entità del fatto non necessariamente implica la rinuncia a punire quello stesso fatto per la sua particolare tenuità. D’altra parte, l’ultimo comma dell’art. 131 bis c.p. prevede in maniera espressa che esso sia applicabile “anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante”.

La configurabilità della fattispecie attenuata prevista dall’art. 609 bis co. 3 c.p. si fonda su valutazioni che attengono essenzialmente al fatto, considerato nelle sue componenti oggettive. L’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. presuppone, invece, un giudizio più ampio e complesso, che investe anche la personalità dell’autore del reato, nonché la sua condotta di vita antecedente e successiva all’azione illecita. Come già detto, tale causa di non punibilità in senso stretto non può trovare applicazione nei confronti di chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza oppure abbia commesso più reati della stessa indole o che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

La riforma “Cartabia”, modificando il comma 1 dell’art. 131 bis c.p., ha stabilito, inoltre, che la valutazione di particolare tenuità dell’offesa debba avvenire in considerazione non solo delle circostanze indicate nell’art. 133 comma 1 c.p., ma anche della “condotta susseguente al reato”.

In definitiva, la non punibilità del fatto è subordinata ad un giudizio che non può essere circoscritto al disvalore della condotta criminosa sub iudice, ma va esteso, in funzione delle esigenze di prevenzione speciale, anche alla meritevolezza del reo, che può beneficiare dell’esimente solo se non è un soggetto abitualmente dedito alla commissione di reati e, eventualmente, dopo la commissione dell’illecito, si è prodigato per eliminarne o attutirne le conseguenze. Di conseguenza, l’assenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. non osta al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis co. 3 c.p.; viceversa, tenendo conto che i parametri valutativi della minore gravità sono parzialmente identici a quelli previsti dall’art. 131 bis c.p.,il mancato riconoscimento della minore gravità si traduce nella implicita assenza anche dei presupposti per escludere la punibilità per particolare tenuità del fatto.


[1] Cass., Sez. III, sent. n. 5646 del16 maggio 2000, in www.cortedicassazione.it:  “Nell’unificazione delle due fattispecie criminose di cui agli artt. 519 e 521 c.p. è stata attuata per una pluralità di ragioni quali quella di evitare indagini odiose, invasive della intimità personale della vittima, l’altra rinvenibile in una diversa concezione della libertà sessuale personale e quella di poter punire con pena adeguata ipotesi di atti di libidine non dissimili dalla vera e propria violenza carnale per l’impatto psicologico sulla vittima”.

[2] Non mancano rilievi critici sul punto, si veda: S. MOCCIA, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale (l. 15 febbraio 1966 n. 66): un esempio di sciatteria legislativa, in Riv. it. dir. pen. proc., 1997, pp. 395 e ss. “la struttura della/e fattispecie incriminatrici è irrilevante rispetto al dovere giudiziale di accertare l’esatta dinamica del fatto aggressivo. L’ontologica differenza e la naturalistica gerarchia fra le condotte sussumibili sotto qualsiasi modello di violenza sessuale — unitario o articolato che sia —, impone comunque al giudice, vincolato al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 comma 1 Cost.) ed orientato, nell’esercizio della sua discrezionalità, dai criteri di cui all’art. 133 c.p., di svolgere ogni accertamento possibile e consentito per la corretta ricostruzione dell’episodio. E ciò vale specialmente in relazione a tipologie tanto odiose di criminali, ma, forse proprio per questo, più bisognose di intransigente garanzia. E tutto questo appare tanto più necessitato dall’opzione normativa fissata nell’art. 609-bis, viste le oscillazioni amplissime che la reale cornice editale della nuova figura consente: 5-10 anni, con possibilità, poco determinata, di riduzione fino ai due terzi”.

[3] Cedu, sent. M.C. vs Bulgaria del 4 dicembre 2003, par. 166., in europa.camera.it : “In the light of the above, the Court is persuaded that any rigid approach to the prosecution of sexual offences, such as requiring proof of physical resistance in all circumstances, risks leaving certain types of rape unpunished and thus jeopardising the effective protection of the individual’s sexual autonomy. In accordance with contemporary standards and trends in that area, the member States’ positive obligations under Articles 3 and 8 of the Convention must be seen as requiring the penalisation and effective prosecution of any non consensual sexual act, including in the absence of physical resistance by the victim”.

[4] Cfr. A. CONTINIELLO, Dalla violenza carnale alla violenza sessuale. Luci e ombre della fattispecie e proposte di riforma, in www.giurisprudenzapenale.com, 2018, pp. 7-8.

[5] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, volume II, Tomo primo, I delitti contro la persona, VI ed., Bologna, 2024, p. 342.

[6] Per una critica al sistema di circostanze della riforma del 1996 vd. ad es.S. MOCCIA, cit., pp. 395 e ss. L’attenuante di cui all’art. 609 bis co. 3 contrasta una delle forti rationes di questa riforma: soddisfare l’esigenza di una maggior tutela della privacy della vittima.

[7] Corte cost., sent. n. 325 del 26 luglio 2005, in www.cortecostituzionale.it: “Mediante una consistente diminuzione (in misura non eccedente i due terzi) della pena prevista per il delitto di violenza sessuale (fissata, nel minimo, in cinque anni di reclusione), risulta così possibile rendere la sanzione proporzionata nei casi in cui la sfera della libertà sessuale subisca una lesione di minima entità. L’attenuante si pone dunque quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato”. Così anche Corte Cost., sent. n. 325 del 18 aprile 2014, in www.cortecostituzionale.it: “Peraltro, la concorde giurisprudenza della Corte di Cassazione considera l’attenuante in esame applicabile «in tutte quelle fattispecie in cui avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale, personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave, ed implica la necessità di una valutazione globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, bensì estesa anche a quelle soggettive ed a tutti gli elementi menzionati nell’art. 133 cod. pen.» (Cassazione, Sez. IV, n. 18662 del 12 aprile 2013, nonché Sez. III, n. 45604 del 13 novembre 2007 e n. 5002 del 7 novembre 2006).

[8] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, Delitti contro la persona, Milano, 2022, p. 454.

[9] Si veda, ad esempio, Cass., Sez. III, sent. n. 215954 del 29 febbraio 2000, in C.E.D., Cass.: “Ai fini dell’accertamento della diminuente del fatto di minore gravità prevista dall’art. 609 bis, comma 3, cod. pen. deve farsi riferimento, oltre che alla materialità del fatto, a tutte le modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa, nonché al danno arrecato alla parte lesa, anche e soprattutto in considerazione dell’età della stessa o di altre condizioni psichiche in cui versi”.

[10] Cass., sez. III, sent. n. 5646 del 16 maggio 2000, cit.

[11] Tra le altre, in ordine cronologico: Cass., Sez. III, sent. n. 46184 del 5 novembre 2013; n. 6784 del 18 novembre 2015; n. 16122 del 12 novembre 2016; n. 50336 del 10 ottobre 2019, in www.cortedicassazione.it.

[12] Il dibattito dottrinale sulla portata operativa del principio di offensività è piuttosto risalente; tra i sostenitori della teoria secondo cui l’offensività costituisca componente della tipicità, in modo da escludere dalla stessa fatti apparentemente conformi al tipo ma concretamente inoffensivi per i beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice, vi è C. FIORE, Il reato impossibile, Napoli, 1959, pp. 34 e ss. Altri esponenti della teoria realistica del reato ritengono, invece, l’offensività estranea all’indagine sulla tipicità, ma idonea a escludere la punibilità di fatti tipici ma inidonei a offendere i beni tutelati, in base a una lettura dell’art. 49 co. 2 c.p. come espressivo del principio di offensività, e dunque sganciato dall’art. 56 c.p.: tra gli altri, L. SCARANO, Il tentativo, Napoli, 1960, pp. 257 e ss.

[13] Sul punto, vd. tra gli altri, G. FIANDACA, L’offensività è un principio codificabile? in Foro.it, V, 2001, p. 7.

[14]  Tra le altre, Corte cost., sent. n. 409 del 13 giugno 1989; n. 68 del 23 marzo 2012, in www.cortecostituzionale.it.

[15] Corte cost., sent. n. 222 del 5 dicembre 2018; n. 50 del 14 aprile 1980; n. 104 del 19 giugno 1968; n. 67 del 15 maggio 1963; in www.cortecostituzionale.it.

[16] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, XX edizione, Milano, 2024, p. 542.

[17] Cass., Sez. III, sent. n. 5646 del 16 maggio 2000, cit. “L’espressione “casi di minore gravità” poi, va inquadrata in analoghe formule più consuete quali “lieve entità”, mentre, ai fini dell’individuazione delle caratteristiche peculiari, assumono rilievo, oltre al carattere oggettivo della stessa correlato con i criteri indicati dall’art.133 c.p., la dimensione del rapporto interpersonale e l’assenza di qualsiasi automaticità, qualora sia configurabile soltanto il pregresso delitto di atti di libidine violenti, giacché la “ratio” della disciplina legislativa che ha abolito la distinzione esclude che possa assurgere per se stessa ad elemento tipico o indizio dell’attenuante, la circostanza che vi sia stata oppure no una penetrazione corporale come sembrerebbe dedurre la sentenza impugnata”.

[18] In una fattispecie che presenta analogie con quella qui in esame (oggetto della sentenza di Cass., Sez. III, n. 40559 del 24 settembre 2021), si è ricordato, in particolare, che quanto alla prospettazione della soggezione come “dovuta” in ragione del proprio ruolo di controllo gerarchico, la quale dovrebbe evocare l’abuso di autorità come modalità attraverso cui si è realizzata la violenza sessuale, essa non può costituire elemento ostativo alla concessione della circostanza attenuante speciale de qua, perché costituisce elemento costitutivo sia del reato di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, sia della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9). E la sua valutazione anche ai fini della esclusione della circostanza della minore gravità integra una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.

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