Cerca
Close this search box.

V13

A volte capita di leggere un libro straordinario che rapisce e non si riesce a smettere di leggere. Un libro che racconta una storia sconosciuta, ma risuona di qualcosa di profondo, familiare, intimo. V13 è così, soprattutto per coloro che celebrano il rito del processo.
È la storia del processo per gli attentati avvenuti in Francia il 13 novembre 2015, era un venerdì, V13.
Il processo in Corte di assise è l’archetipo del processo, si svolge con una ritualità ed un ritmo speciali, questo, allestito e preparato come un evento straordinario, è durato nove mesi, 149 udienze. L’autore le ha vissute tutte, per oltre un anno, con intenzioni di spettatore, ma, udienza dopo udienza, divenendo parte di un rito collettivo.
Mai, nemmeno una volta, ho preso in considerazione l’eventualità di mollare. Mai ho avuto voglia di uscire dalla scatola. Sapevo, sapevamo che stavamo vivendo insieme qualcosa di completamente diverso da uno sfoggio di virtù a beneficio della Storia, da quell’happening giudiziario faraonico e inutile che all’inizio avevamo buoni motivi di paventare. Qualcosa di completamente diverso: un’esperienza unica di terrore, pietà, vicinanza, presenza. Soltanto tardi mi sono reso conto che la scatola somiglia a una chiesa moderna e che al suo interno si è svolto qualcosa di sacro.
Il processo ed il libro hanno dato spazio alle molte parti civili, ma il racconto ha il merito di non deporre un macigno che schiaccia sotto la parola vittima ogni identità.
Molte storie sono raccontate dettagliatamente, come quella, toccante, di Nadia Mondeguer e quella di Georges Salines, padre di una ragazza uccisa al Bataclan che ha scritto un libro con il padre di uno degli attentatori, ma anche quella della falsa vittima Flo, o di “quelli di Rue du Corbillon” vittime delle teste di cuoio e di Patrick Jardin che chiede, in dissonanza dagli altri, rabbiosa vendetta.
Imparare a sostituire la legge del taglione con il diritto, la vendetta con la giustizia: questo è ciò che chiamiamo «civiltà», e Georges Salines è un uomo assolutamente civile, cui mi piacerebbe somigliare se mi capitasse una disgrazia simile. Eppure, quell’arcaico furore che dobbiamo imparare a superare, prima di superarlo dobbiamo riconoscere che esiste -perché esiste per forza, altrimenti non saremmo umani. Antoine Leiris, un giovane la cui moglie è stata uccisa al Bataclan, ha scritto un libro commovente, Non avrete il mio odio, il cui titolo è diventato uno slogan. Io ammiro la dignità di tutte le persone che si sono presentate alla sbarra ripetendo quello slogan, dicendo che non provano rabbia, che non vogliono altro che un processo equo, che gridare vendetta significa darla vinta agli assassini, ma penso in primo luogo che sia un discorso troppo unanime e virtuoso per essere del tutto onesto, e poi che queste persone stiano mettendo a tacere troppo presto il Patrick Jardin che alberga in loro ed è bene che almeno una volta su duecentocinquanta ne abbiamo sentito la voce cupa e senza perdono.
Carrere, da cronista occasionale, riesce a tratteggiare interessanti elementi della procedura penale francese, spiega la composizione della Corte d’assise nei processi per terrorismo in cui ‹‹per paura di ritorsioni la Corte è composta da magistrati di professione per i quali le ritorsioni rientrano nei rischi del mestiere››, si sofferma sul tema del “vero ergastolo” comminato in Francia dal 1994 solo quattro volte, racconta degli avvocati.
Difendere le vittime è nobile, bisogna farlo, ma la causa è vinta in partenza. Difendere dei presunti terroristi è un altro paio di maniche. Ci vuole passione, si deve amare la lotta. E poi c’è sempre qualcuno che identifica gli avvocati della difesa con i loro assistiti, chi si somiglia si piglia. Una cosa che trovo bella al V13 è che questo pregiudizio è raro. La maggior parte delle vittime con cui parlo stima gli avvocati degli imputati. Ritiene importante che siano bravi. Ricordo Nadia, che ha concluso la sua deposizione girandosi verso di loro. «Adesso, avvocati della difesa, fate il vostro lavoro. Fatelo bene. Lo dico sinceramente». Avvocati della difesa: non è un po’ pleonastico?
Infine, la lunga attesa della decisione, la lettura della sentenza e lo sguardo dell’imputato sul difensore per cogliere il significato del dispositivo sulla faccia dell’avvocato, le domande del pubblico sul senso degli articoli del codice e poi le reazioni, i commenti dei difensori, le strategie che già si delineano e anche le perplessità di molti ‹‹parti civili comprese che per la maggior parte si sentono a disagio di fronte a questa condanna inflitta quattro volte in un quarto di secolo›› e di fronte alla costruzione dell’associazione a delinquere con finalità di terrorismo.
Poi si scendono le scale del tribunale, il processo è finito, l’autore dipinge un’immagine viva di un bistrot in cui si trovano a bere gli avvocati delle parti civili con i difensori, i pubblici ministeri, le vittime e tre degli imputati che hanno lasciato l’aula da uomini liberi.
Tutto è iniziato nei bistrot di Parigi e in un bistrot finisce.
V13 è un interessante racconto di cronaca, ma a tratti è illuminante più di un trattato sull’oralità, le parti, la pena e sul senso ultimo del processo.

Tags

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore