Il carcere ai tempi del coronavirus

Francesco Soviero - 03/04/2020
Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18

 

In questi giorni difficili e drammatici, non solo per il nostro Paese, il diritto alla salute è al centro del dibattito politico, sociale e culturale.

Il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, riguarda tutti i cittadini.

Tra i cittadini ci sono anche i detenuti. Con tutte le problematiche (e le polemiche) che la “crisi carceraria” connessa all’emergenza COVID 19 sta facendo emergere.

Si avverte, difatti, l’esigenza di assicurare negli istituti penitenziari la tutela del diritto alla salute dei detenuti, ma anche degli appartenenti alla polizia penitenziaria, degli operatori e di tutto il personale che vi opera.

L’eccezionale gravità della situazione epidemiologica del Paese rende concreto il rischio di una diffusione del contagio all’interno degli istituti di pena.

Per i detenuti vanno bilanciate e coniugate le finalità proprie del trattamento sanzionatorio penale (il finalismo rieducativo della pena, l’umanità del trattamento carcerario, le esigenze general-preventive) con i temi fondamentali della salute dei detenuti stessi e della sicurezza all’interno degli istituti di pena.

E nei tempi del Coronavirus il diritto alla salute si declina -per tutti, dunque anche in carcere- nelle sue varie forme: innanzitutto come diritto a tutelare al massimo la propria incolumità e il benessere, che significa evitare il diffondersi dei contagi per il tramite del rispetto della distanza, seguire precise precauzioni sanitarie, avere istruzioni igieniche (si pensi all’uso ormai tanto diffuso di detergenti, guanti e mascherine).

Ma il carcere è sovraffollato e tutte queste importanti regole, alle quali ciascuno di noi si deve adeguare, non si possono rispettare. I detenuti presenti al 29.2.2020 -ultimo dato disponibile- sono 61.230, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931.

Da qui la necessità di adottare misure idonee a ridurre le condizioni di sovraffollamento carcerario.

Per il contenimento dell’emergenza COVID 19 il Governo ha dato delle risposte e offerto delle soluzioni con il D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, cd. “Cura Italia”, (tra l’altro senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato) e sono state introdotte le misure di cui agli artt. 123 e 124.

Tali disposizioni sono state oggetto di recente di un parere del Consiglio Superiore della Magistratura.

Nella specie, il D.L. n.18/2020 si è occupato nell’art. 83 comma 16, in primis, dei colloqui dei detenuti con i parenti, vietando i colloqui visivi e disponendo che questi vengano effettuati a distanza mediante Skype e attrezzature simili, ovvero per telefono. E poi potenziando e sviluppando tali modalità alternative.

La sospensione dei colloqui visivi risponde alla esigenza preminente di preservare la salute dei detenuti, dei loro familiari, ma anche della collettività. Ed invero, come per tutti i cittadini, si vogliono limitare gli spostamenti sul territorio dei familiari che si recavano in visita dai loro congiunti detenuti per le ragioni igienico-sanitarie legate alla diffusione del contagio da COVID 19.

 

Il D.L. n.18/2020 ha previsto, poi, nell’art. 83 comma 17 che il Magistrato di Sorveglianza, tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria, possa sospendere -nel periodo compreso tra il 9.3.2020 e il 31.5.2020- la concessione dei permessi premio di cui all’art. 30 ter della L. n. 354/75, nonché del regime di semilibertà ai sensi dell’art. 48 della medesima legge e del D.L. n.121 del 2 ottobre 2018; ma soprattutto ha previsto (all’art. 124 rubricato “licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà”) che le licenze ai semiliberi possono avere durata sino al 30.6.2020. Ciò al fine di contenere le occasioni di contagio (il semilibero, rientrando la sera in carcere, può aumentare le possibilità di contagio per effetto della connaturata spola tra domicilio e carcere), ma anche favorendo la riduzione della popolazione carceraria.

 

Infine, la disposizione più significativa (contenuta nell’art. 123 rubricato “disposizioni in materia di detenzione domiciliare”) riguarda l’introduzione di una detenzione domiciliare speciale “in deroga al disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’art.1 L. n.199/2010”.

La ratio dichiarata di questa norma, secondo la relazione illustrativa, è la necessità di introdurre “moderate e accorte soluzioni per attenuare il cronico sovraffollamento”, recuperando e ampliando il modello operativo offerto dalla L. n. 199/2010, norma che era stata adottata in corrispondenza del dichiarato stato di emergenza derivante dal sovraffollamento negli istituti penitenziari.

Tale misura ha un preminente contenuto di premialità, come del resto ribadito dalla relazione illustrativa al D.L. n. 18/2020.

In pratica, è prevista -solo per i condannati in via definitiva- la possibilità di eseguire la pena detentiva presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove la pena stessa non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, con delle preclusioni connesse a una serie di reati indicati nei commi successivi o a caratteristiche personali e criminali del condannato stesso.

Difatti, sono esclusi dal beneficio i soggetti condannati per uno dei delitti ostativi previsti dall’art. 4 bis O.P., i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai sensi degli artt. 102, 105 e 108 c.p., i detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare ai sensi dell’articolo 14 bis della L. n. 354 del 26 luglio 1975.

Sono state però individuate nuove ipotesi di esclusione soggettiva, poiché non possono fruire della misura: i condannati per i delitti di maltrattamenti in famiglia e stalking (artt. 572 e 612 bis c.p.); i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18, 19, 20 e 21 del D.P.R. n.230 del 30 giugno 2000; i detenuti nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81, comma 1, del D.P.R. n.230 del 30 giugno 2000, in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse del 7 e 8 marzo 2020 (art. 123, comma 1).

Quindi, per l’ammissione alla detenzione domiciliare si richiede che la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, e che il condannato abbia la disponibilità di un domicilio effettivo e, per ubicazione, idoneo a soddisfare le esigenze di protezione della persona offesa dal reato.

E’ necessaria, naturalmente, una istanza di parte.

La competenza in materia è del magistrato di sorveglianza, che dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio, “salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”.

Come è noto, la Magistratura di sorveglianza è l’organo giurisdizionale competente sulla fase dell’esecuzione della pena e del trattamento penitenziario; in particolare, é preposta a vigilare sull’organizzazione degli istituti di pena e a garantire il rispetto dei diritti di cui ciascun detenuto non deve essere privato durante la carcerazione, tra i quali primeggia il diritto alla salute.

Il procedimento per la concessione della misura è quello previsto dalla L. n. 199/2010, all’art. 1, comma 5: il Magistrato di sorveglianza provvede con ordinanza motivata adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, entro cinque giorni dalla presentazione dell’istanza. In caso di accoglimento dell’istanza, l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio o le altre strutture indicate nel primo comma dell’art. 123.

Il difensore, l’interessato e il pubblico ministero possono proporre, entro dieci giorni dalla comunicazione, reclamo al Tribunale di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’art. 678 cod. proc. pen..

L’istruttoria, rispetto a quella prevista dalla L. n.199/2010, è semplificata e accelerata, nel senso che è stata eliminata la relazione sulla condotta tenuta in detenzione da parte dell’istituto di pena e viene affidata alla Direzione del carcere di attestare la posizione giuridica del condannato, mentre la Polizia Penitenziaria (e non più l’Uepe) ha il compito di accertare il domicilio indicato (anche mediante verifica telefonica).

Come detto, la detenzione domiciliare speciale così costruita non è di immediata applicazione, in quanto per l’accoglimento dell’istanza è necessaria la verifica dell’assenza di “gravi motivi ostativi” da parte del Magistrato di sorveglianza (a carico del quale vengono poste le maggiori responsabilità del “successo” dell’istituto).

Infine, il controllo sul detenuto domiciliare è effettuato per il tramite di mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (cd. “braccialetto elettronico”), procedura che viene disattivata quando la pena residua da espiare scende sotto la soglia di sei mesi.

 

Diversi sono i punti critici di tale misura (che richiederebbero, a mio parere, un intervento normativo o modifiche in sede di conversione del decreto legge).

In primis, gli indicati gravi motivi che possono determinare il rigetto dell’istanza non sono tipizzati e ciò rende la norma di complessa interpretazione, perché se devono escludersi dai gravi motivi ostativi il pericolo di fuga e la possibile reiterazione di reati, in quanto requisiti espressamente abbandonati dal D.L. n.18/2020, non è di immediata intuizione quali essi possano essere (a meno di non voler ritenere, nella ricorrenza delle condizioni soggettive e oggettive di cui al comma 1 dell’art.123, la sussistenza di una sorta di presunzione di idoneità della detenzione domiciliare, difficilmente superabile).

Altro punctum dolens per l’applicazione di questa misura è l’esistenza di un domicilio. Difatti, una parte della popolazione detenuta non potrà avere accesso alla misura per l’indisponibilità di un effettivo domicilio.

Inoltre, anche in questo caso la idoneità ed effettività del domicilio indicato dall’istante, che deve essere accertata dalla Polizia Penitenziaria, non è stata tipizzata.

Infine, la concreta fruibilità della detenzione domiciliare potrebbe essere frustrata dalla scarsa disponibilità, più volte denunciata, degli strumenti elettronici di controllo, della quale il legislatore è consapevole.

Anche in considerazione del dato, alquanto significativo, costituito dalla assenza di investimenti per l’applicazione di tali misure.

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