“Cura Italia” e detenzione domiciliare tra proclami ed effettività

Giuseppe Murone - 02/04/2020
Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18

Il contributo analizza la particolare disciplina della detenzione domiciliare per pene non superiori a diciotto mesi introdotta dal d.l. n. 18 del 2020 (c.d. decreto “Cura Italia”) al fine dichiarato di contrastare “l’emergenza epidemiologica da COVID-19” e “attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti”, evidenziando come si sia inteso recuperare il modello operativo promanante dall’art. 1 l. n. 199 del 2010 e apportare ad esso modifiche procedurali tali, negli intenti, da snellirne il procedimento applicativo e renderlo adeguato ai fini dichiarati.

Muovendo da tali presupposti, il contributo si concentra in via essenziale sull’applicazione obbligatoria delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici a tutti i condannati maggiorenni la cui pena da espiare abbia durata superiore a sei mesi, principale tratto caratterizzante della riforma, esaminando l’istituto di nuova introduzione sotto i profili relativi alla effettività e alla coerenza agli scopi.

 

Sommario: 1. Nuova detenzione domiciliare e ratio – 2. Procedimento applicativo – 3. Emergenza sanitaria e legislazione emergenziale – 4. Cause di esclusione e “legge Spazzacorrotti” – 5. Applicazione obbligatoria della procedura di controllo – 6. Considerazioni conclusive

1. Nuova detenzione domiciliare e ratioIl d.l. 17 marzo 2020, n. 18, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, ha introdotto, all’art. 123, una particolare disciplina della detenzione domiciliare per pene non superiori a diciotto mesi, che si pone come derogatoria, per espressa previsione, rispetto a quella ordinariamente prevista dall’art. 1 l. 26 novembre 2010, n. 199 e interessa un periodo temporale rigidamente predeterminato, che va dal 17 marzo 2020, giorno di entrata in vigore del provvedimento, al 30 giugno 2020.

La relazione illustrativa del decreto legge, espressamente richiamando “l’emergenza epidemiologica da COVID-19” e “l’ampia concentrazione di personale di polizia penitenziaria, di detenuti e di operatori”, consente di immediatamente individuarne la ratio nella “opportunità di percorrere moderate e accorte soluzioni volte ad alleggerire quella concentrazione e, al contempo, ad attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti”. Ed ancora, la successiva circolare del Ministero dell’Interno n. 15350/117(2)/Uff III-Prot.Civ. del 18 marzo 2020 chiarisce che “gli artt. 123 e 124 del decreto … recano disposizioni in materia, rispettivamente, di detenzione domiciliare e di licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, finalizzate ad attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti penitenziari”.

La rubrica della disposizione in commento (“Disposizioni in materia di detenzione domiciliare”) consente, per altro verso, di comprendere subito come l’intervento sia rivolto in via esclusiva ai soggetti condannati in via definitiva: si è inteso intervenire unicamente sulla esecuzione della pena detentiva ed esula chiaramente dall’ambito applicativo della norma la custodia cautelare in carcere.

2.Procedimento applicativo – Il peculiare istituto “a tempo” intende recuperare il modello operativo promanante dall’art. 1 l. n. 199 del 2010, che prevede la possibilità di eseguire le pene detentive di durata non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, in luoghi esterni al carcere ed esattamente presso l’abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza.

Nello specifico, l’art. 123, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 deroga espressamente al disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’art. 1 l. n. 199 del 2010 e richiama, al comma 8, le ulteriori previsioni della medesima disposizione ove compatibili; è previsto che il procedimento applicativo della particolare forma di detenzione domiciliare in commento venga avviato “su istanza”, promanante – in difetto di espressa indicazione legislativa e secondo la menzionata relazione illustrativa – dall’interessato, dal direttore dell’istituto penitenziario o dal pubblico ministero, e si concluda con ordinanza del magistrato di sorveglianza, resa inaudita altera parte.

Il comma 1 della richiamata disposizione esclude in maniera rigida la possibilità di applicare la misura a quattro gruppi di soggetti:

– condannati per i c.d. reati ostativi di cui all’art. 4 bis l. 26 luglio 1975, n. 354, oltre che per i reati di cui agli artt. 572 (maltrattamenti contro familiari o conviventi) e 612 bis c.p. (atti persecutori) (lett. a);

– delinquenti abituali, professionali o per tendenza ai sensi degli artt. 102, 105 e 108 c.p. (lett. b);

– detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare previsto dall’art. 14 bis l. n. 354 del 1975, che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’articolo 77 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 o nei cui confronti sia stato redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81 del medesimo decreto, in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020 (lett. c, d ed e);

– detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato (lett. f).

Il magistrato di sorveglianza adotta il provvedimento che dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio, salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura, e, dunque – in ipotesi di soggetto detenuto al momento di applicazione della misura – senza che la direzione dell’istituto penitenziario debba, previamente, necessariamente trasmettere la relazione sul complessivo comportamento dal medesimo tenuto, a differenza di quanto ordinariamente previsto dall’art. 1 l. n. 199 del 2010.

Per l’espresso richiamo contenuto al comma 5 dell’art. 1 l. n. 199 del 2010, il procedimento applicativo è a contraddittorio differito e segue le forme previste dall’art. 69 bis l. n. 354 del 1975: il magistrato provvede con ordinanza adottata nel termine di cinque giorni in camera di consiglio senza la presenza delle parti, avverso la quale può essere proposto reclamo entro dieci giorni al tribunale di sorveglianza.

Salvo che si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena da eseguire non è superiore a sei mesi, è applicata obbligatoriamente la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari, alla cui applicazione il condannato deve prestare il consenso: a tal fine, è previsto, al comma 5 della norma in commento, che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, d’intesa con il Capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, adotti – entro il termine di dieci giorni dall’entrata in vigore del decreto legge – un provvedimento volto ad individuare il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Da ultimo, è stabilito che l’esecuzione del provvedimento di concessione della misura nei confronti dei condannati con pena residua da eseguire superiore ai sei mesi avvenga progressivamente, a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore.

3.Emergenza sanitaria e legislazione emergenziale – Così ricostruita in via di estrema sintesi la particolare disciplina prevista per la nuova forma di detenzione domiciliare “da Coronavirus”, appare di interesse rilevare come il nuovo regime, transeunte e figlio della legislazione dell’emergenza, intervenga ricalcando e modificando un istituto, la detenzione domiciliare relativa alla pene detentive non superiori a diciotto mesi, a sua volta originariamente destinato ad avere ambito temporale di applicazione limitato e derivante da legislazione emergenziale.

Ed invero, l’art. 1 l. n. 199 del 2010 prevedeva inizialmente l’efficacia dell’istituto “fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2013”: tale durata, a cagione della mancata risoluzione dell’emergenza carceraria, è stata stabilizzata dal d.l. n. 146 del 23 dicembre 2013. Ciò consente di formulare un primo rilievo: il legislatore ha inteso esplicitamente “attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti penitenziari” – come evidenziato in premessa – evidentemente accorgendosi del “problema dimenticato” in un momento di emergenza sanitaria mondiale.

La mancata risoluzione della emergenza carceraria, che aveva imposto esattamente dieci anni addietro di approntare il Piano Straordinario Penitenziario (c.d. Piano Carceri), ha imposto oggi l’utilizzo di uno strumento nato per fronteggiare tale emergenza, nel tempo diventato di uso comune a causa della sua mancata gestione e risoluzione e, nei tempi attuali, adattato al fine di fronteggiare, oltre e in aggiunta ad essa, la più grave crisi sanitaria della storia moderna.

La “lunga” e peculiare storia del nuovo istituto consente, quindi, di individuare la ragione della essenzialità del suo utilizzo, ossia della necessità di intervenire su un problema accantonato e che si presenta oggi esponenzialmente aggravato, nella assoluta indifferenza alla risoluzione dello stesso.

Ma vi è di più, in quanto il nuovo strumento si pone, invero, in indiscutibile contrasto con la più recente riforma penitenziaria, la c.d. riforma Conte-Bonafede attuata dai d.lgs. 2 ottobre 2018, nn. 121, 123 e 124, che non ha in alcun modo inteso valorizzare e meglio coordinare tra loro le misure alternative alla detenzione e, al contrario, ha opposto una netta chiusura alla modificabilità in itinere della pena detentiva, in tal guisa collocandosi a distanza abissale dai parametri imposti dalla Costituzione e dalla sentenza n. 149 del 2018 della Corte Costituzionale, che aveva individuato nella “progressività trattamentale” e nella “flessibilità” della pena una diretta “attuazione del canone costituzionale della rieducazione del condannato”. Esso si mostra, peraltro, assolutamente indifferente, nella intentio legislatoris, alla finalità rieducativa della pena, espressamente intesa nella relazione illustrativa all’intervento di riforma come “principio rieducativo per cui le pene irrogate debbono essere scontate”.

Nella direzione complessivamente evocata, può concludersi, la ratio dell’intervento è immediatamente correlata ad un errore di sistema, ad un sistema ordinariamente e strutturalmente incapace di assicurare condizioni idonee negli istituti carcerari: in tal senso, il duplicarsi dell’emergenza ha imposto di duplicare uno strumento di matrice emergenziale.

4.Cause di esclusione e “legge Spazzacorrotti” – Sotto altro profilo, appare opportuno verificare la possibilità di legittimamente ritenere esclusi da coloro cui è concedibile la nuova misura alternativa alla detenzione in commento i soggetti che sono stati condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della l. 9 gennaio 2019, n. 3.

Giova, a tale proposito, ricordare che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 32 del 12 febbraio 2020, ha in via generale ritenuto costituzionalmente illegittima, con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna, l’interpretazione secondo cui le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione potrebbero essere applicate retroattivamente.

In tal senso, è stato precisato che se al momento del reato è prevista una pena che può essere scontata fuori dal carcere ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire dentro il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo: tale decisione è il risultato di una rimeditazione del tradizionale orientamento secondo cui le pene dovessero sempre essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione e non a quella in vigore al momento del fatto, in quanto il principio sancito dall’art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, opera come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”.

Pertanto, se, di regola, è legittimo che le modalità esecutive della pena siano disciplinate dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione e non da quella in vigore al momento del fatto, ciò non può valere, sottolinea la sentenza, “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”.

La “legge Spazzacorrotti”, conclusivamente, ha reso assai più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, sicché non può essere applicata retroattivamente dai giudici, ossia interpretata nel senso che le modificazioni da essa introdotte si applichino anche ai condannati per fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Tale principio è stato dalla Corte Costituzionale specificato anche con particolare riferimento alla “detenzione domiciliare nelle sue varie forme”.

Poste tali premesse di carattere generale, si deve considerare come, a parere di chi scrive, l’estensione delle preclusioni promananti dall’art. 4 bis l. n. 354 del 1975 introdotta dalla “legge Spazzacorrotti” non possa valere con riferimento alla particolare forma di detenzione domiciliare in commento: rientrando quest’ultima sicuramente nel genus delle misure alternative alla detenzione, la nuova introduzione della stessa, pur successiva alla stessa l. n. 3 del 2019, non osta alla possibilità di considerare la stessa concedibile ai soggetti condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione, ove gli stessi abbiano commesso il reato in un momento antecedente all’entrata in vigore di quest’ultima.

In tale prospettiva, assume valore decisivo, al fine di stabilire se la misura alternativa è concedibile al soggetto, il momento di commissione del fatto: ne consegue che l’art. 123 d.l. n. 18 del 2020 dovrà essere interpretato nel senso che le preclusioni contenute nella lett. a del comma 1 della medesima disposizione non possono essere applicate ai soggetti che hanno commesso i reati contro la Pubblica Amministrazione inclusi nell’elenco di cui all’art. 4 bis l. n. 354 del 1975 in un momento antecedente all’entrata in vigore della “legge Spazzacorrotti”.

5.Applicazione obbligatoria della procedura di controllo – Da ultimo, particolare considerazione merita la previsione relativa all’applicazione obbligatoria delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici – per tali intendendosi essenzialmente un’apparecchiatura composta da una centralina fissa (il ricevitore) e da un dispositivo che viene applicato alla caviglia del sorvegliato (il trasmettitore, c.d. braccialetto elettronico) – a tutti i condannati maggiorenni la cui pena residua da espiare sia superiore a sei mesi.

Essa, in senso proprio, sdoppia il procedimento applicativo secondo due binari paralleli: i soggetti minorenni o con pena da espiare non superiore a sei mesi beneficeranno della misura alternativa, a condizione di non rientrare nelle categorie di esclusione, su istanza e salvo che ricorrano gravi motivi ostativi, ai soggetti maggiorenni e con pena da espiare superiore a sei mesi – numericamente assai più rilevanti – l’applicazione effettiva della stessa verrà invece preclusa a meno di non rientrare nel numero dei braccialetti elettronici individuati da un atto amministrativo successivo al decreto legge in commento.

Ciò consente immediatamente di comprendere come la previsione in argomento misuri la tenuta dell’istituto di nuova introduzione in punto di effettività e coerenza agli scopi, consentendo d’altro canto di valutare la reale capacità dello stesso di garantire un intervento urgente.

Giova, in primis, rilevare che la disposizione dell’art. 123, comma 3, d.l. n. 18 del 2020 è radicalmente distinta rispetto a quella di cui all’art. 275 bis, comma 1, c.p.p., che, nel prevedere l’applicazione delle medesime procedure, in ipotesi di disposizione degli arresti domiciliari, salvo che il giudice le ritenga non necessarie, presuppone comunque che il giudice ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria: in caso di esito negativo, hanno precisato le Sezioni Unite con sentenza n. 20769 del 2016, il giudice deve valutare la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto e, pertanto, all’accertata indisponibilità del congegno elettronico non può conseguire alcuna automatica applicazione né della custodia cautelare in carcere né degli arresti domiciliari tradizionali.

Ed ancora, la previsione in oggetto si pone come norma speciale rispetto a quanto previsto in via generale per la detenzione domiciliare dall’art. 58 quinquies l. n. 354 del 1975, che dispone che il magistrato o il tribunale di sorveglianza possano prescrivere procedure di controllo anche mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, in base alla effettiva disponibilità da parte della polizia giudiziaria, anche nel corso dell’esecuzione della misura.

Nella direzione evocata, nel caso che ne occupa la logica è chiaramente invertita: è prevista l’obbligatoria applicazione degli strumenti di controllo e, a tutti coloro i quali non rientrano nel “numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili”,  individuato ai sensi del comma 5 dell’art. 123 d.l. n. 18 del 2020 con autonomo atto amministrativo periodicamente aggiornato, e nel numero degli strumenti riservati a ciascun istituto, ai sensi del comma 3 della medesima disposizione, risulta preclusa sic et simpliciter la possibilità di accedere alla misura alternativa alla detenzione. Ciò risulta speculare, a ben vedere, a quanto previsto sul piano procedurale con riferimento alla concedibilità della nuova detenzione domiciliare a condizione che il magistrato di sorveglianza non ravvisi “gravi motivi ostativi” e senza previo svolgimento di effettiva istruttoria (in difetto pure di redazione della relazione sulla condotta del detenuto in carcere ad opera del direttore dell’istituto penitenziario).

Agli automatismi applicativi, può concludersi, fanno da compendio gli “automatismi esclusivi”: ai soggetti con pena da espiare superiore ai sei mesi, non importa se concretamente pericolosi o meno, la misura alternativa è concessa “in ordine di minor pena”, a condizione di non far parte delle categorie ostative di cui al comma 1 dell’art. 123 d.l. n. 18 del 2020 e di rientrare nel numero dei braccialetti elettronici disponibili nel complesso e nel singolo istituto carcerario.

Quanto ricostruito consente di esprimere, nel concreto, un giudizio nettamente negativo in punto di effettività e coerenza agli scopi: la creazione ad hoc, in un contesto legislativo emergenziale, di un istituto che ricalca la detenzione domiciliare “ultimi diciotto mesi” e se ne differenzia quasi esclusivamente per la sommarietà e automaticità del procedimento applicativo, sia “in entrata” che “in uscita”, lontana dal poter assolvere la proclamata intentio legislatoris di “attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti”, appare poter unicamente soddisfare esigenze propagandistiche o, quantomeno, fornire risposte formali e apparenti alle molteplici istanze, da più parti promananti, volte a richiedere l’intervento dello Stato a tutela della salute dei detenuti, a fronte delle gravi condizioni interne alle carceri e dell’emergenza epidemiologica da COVID 19 in atto.

In tal senso, non è concepibile l’espresso riferimento all’attenuazione del “cronico problema di sovraffollamento degli istituti”, a fronte della prescelta soluzione procedimentale “step by step” lenta e ad alto tasso di discrezionalità amministrativa nella individuazione del numero dei soggetti che si intende preservare dall’enorme rischio sanitario sugli stessi incombente e, soprattutto, a fronte delle modeste cifre che paiono trapelare nella concreta definizione del numero dei dispositivi elettronici da applicarsi in via dilazionata nel tempo (“2.600 … da installare in via progressiva settimanalmente”, secondo quanto riferito dal Guardasigilli durante il Question Time alla Camera dello scorso 25 febbraio, o 5.000, di cui solo 920 in un primo momento disponibili, secondo le notizie di stampa degli ultimi giorni di marzo), che consentono immediatamente di disvelare l’ineffettività dell’intervento se comparate con le cifre ufficiali fornite dal Ministero della Giustizia in ordine alla situazione nelle carceri italiane (il dato aggiornato al 29 febbraio 2020 è di 61.230 detenuti a fronte di una capienza massima di 50.931).

Non è possibile seriamente pensare, ancora, di rendersi conto di un problema espressamente definito cronico, e dunque radicato nel tempo, e ricercare le relative soluzioni in un momento di crisi sanitaria mondiale, pretendendosi espressamente, in base all’ultimo comma della disposizione in commento, di non far derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica dall’attuazione dell’intervento, ossia di intervenire in via d’urgenza nell’ambito delle risorse già investite.

Non è seriamente ipotizzabile, da ultimo, a fronte della endemica (e ben nota) scarsissima disponibilità degli strumenti di controllo in tutto il territorio nazionale e della necessità, normativamente prevista, di attendere un ulteriore provvedimento – che avrebbe dovuto essere adottato entro il termine, non rispettato, di ulteriori dieci giorni dall’entrata in vigore del decreto legge in commento ed è volto ad individuare nel concreto il numero dei soggetti, con pena residua da espiare compresa tra i diciotto mesi e i sei mesi e un giorno, cui è concesso di espiare la residua pena presso il proprio domicilio – fornire risposte concrete e rapide al rischio di diffusione incontrollata e incontrollabile del COVID 19 all’interno degli istituti carcerari.

6.Considerazioni conclusive – Alla stregua della ricostruzione che precede, è possibile rilevare come la particolare disciplina della detenzione domiciliare in commento – all’evidenza legata nel profondo a concezioni della finalità rieducativa della pena lontane dalla Carta Costituzionale e che di per sé si rivolge ovviamente ad una sola parte della popolazione detenuta, avendo riferimento ai soli condannati in via definitiva – non appaia poter concretamente ed efficacemente far fronte alla grave condizione di sovraffollamento carcerario nella terribile crisi sanitaria in atto.

Le palesi e incontestabili necessità e urgenza di arginare la diffusione del virus COVID 19 all’interno degli istituti penitenziari avrebbero imposto soluzioni rapide ed effettive, non subordinate alla necessaria applicazione di strumenti di controllo estremamente difficili da reperire già in condizioni ordinarie e non ancora determinati nel numero e, dunque, nelle concrete possibilità di applicazione al momento dell’entrata in vigore del provvedimento legislativo.

Tali considerazioni risultano rafforzate, se possibile, dalla espressa pretesa di non effettuare investimenti volti ad attuare il provvedimento, con conseguente impossibilità di incrementare il numero degli strumenti elettronici di controllo rispetto a quelli ordinariamente disponibili, e dal mancato rispetto del termine di dieci giorni stabilito dalla legge per l’adozione del cennato provvedimento amministrativo, che rendono ancor più evidente, se ve ne fosse bisogno, lo scollamento dai parametri di certezza e immediatezza proclamati e necessari al fine di arginare il rischio che il Coronavirus dilaghi nelle carceri.

Sarebbe stato opportuno, a ben vedere, effettivamente snellire il procedimento applicativo ordinariamente previsto per la detenzione domiciliare per pene non superiori a diciotto mesi, che al contrario appare finanche più facilmente applicabile dell’istituto di nuova introduzione, estremamente compromesso nelle potenzialità applicative – al di là delle etichette e delle apparenze che promanano da alcune semplificazioni procedimentali – dall’obbligatorio riferimento a procedure di controllo pressoché introvabili sul mercato e a priori controllabili nel numero mediante lo strumento del richiamato atto amministrativo sub specie di provvedimento periodico ex art. 1, comma 5, d.l. n. 18 del 2020, con inevitabili conseguenze in punto di possibili, irragionevoli, discriminazioni.

Cosicché, è agevole autonomamente valutare la scelta normativa di affidare la “cura” dell’emergenza ad uno strumento mutuato da un istituto di per sé incapace di effettivamente risolvere il problema di sovraffollamento carcerario (ed invero utilizzato 27.152 volte in dieci anni secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia aggiornati al 29 febbraio 2020) e, se possibile, nel concreto depotenziato.

E’ manifesto il rischio, in conclusione, di contingentare l’accesso alla misura alternativa in commento, correlando la tutela del diritto alla salute dei detenuti a meccanismi privi di effettività e ad alto tasso di discrezionalità, concretanti automatismi applicativi distanti negli effetti dalla ratio proclamata dell’intervento di riforma: si imporrà, pertanto, nelle prossime settimane la costante valutazione dei risultati della riforma e la rispondenza degli stessi ai parametri di uguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza imposti dalla Carta Costituzionale, in attesa di eventuali e clamorose modifiche apportate alla disciplina in commento – anche in sede di conversione del decreto legge – al fine di renderla concretamente adeguata e tentare di recuperare, per quanto possibile, gli effetti proclamati di un provvedimento in via assoluta incapace di garantire soluzioni immediate.

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