Rincari e speculazione nella vendita delle mascherine: configurabilità del reato di cui all’art. 501-bis c.p.
L’attuale emergenza sanitaria ha inciso profondamente nel mondo del diritto: oltre alla necessità di dover interpretare le nuove disposizioni che, nel corso degli ultimi mesi, sono state approvate dal legislatore, gli operatori del diritto hanno dovuto affrontare casi concreti che, prima dell’attuale emergenza, si verificavano estremamente di rado.
Uno di questi è quello che è stato esaminato dal GIP di Salerno il quale, nel decreto in commento, ha disposto il sequestro di oltre 200 mascherine vendute al dettaglio ad un prezzo pari ad oltre il triplo di quello di acquisto dal fornitore.
Come è ormai noto, infatti, con la progressiva diffusione del virus, le scorte di determinati beni sono iniziate progressivamente a diminuire e, proporzionalmente, sono aumentati i prezzi.
In particolare, igienizzanti, disinfettanti, guanti monouso e Dispositivi di Protezione Individuale (mascherine) hanno iniziato a scarseggiare e, nonostante l’avvio di una maggiore produzione italiana e un numero elevato di dispositivi di dispositivi importati dall’estero, si sono verificati molti casi di vere e proprie “speculazioni” da parte di diversi privati che avevano disponibilità di un certo numero di prodotti.
Il decreto riveste grande interesse in quanto la condotta speculativa in oggetto è stata ritenuta penalmente rilevante in quanto è stata ritenuta sussistente la fattispecie prevista dall’art. 501-bis c.p., ovvero il reato di “Manovre speculative su merci”.
Tale norma punisce:
– “chiunque, nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale, compie manovre speculative o occulta, accaparra o incetta materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità, in modo da determinare la rarefazione o il rincaro sul mercato interno”;
chi “in presenza di fenomeni di rarefazione o rincaro sul mercato interno delle merci indicate nella prima parte del presente articolo e nell’esercizio delle medesime attività, ne sottrae all’utilizzazione o al consumo rilevanti quantità”.
Al fine di valutare l’applicabilità al caso di specie della summenzionata norma deve essere operata un’analisi dei suoi elementi essenziali.
In tal senso, dalla mera analisi testuale dell’art. 501-bis c.p. si desume che ai fini della configurabilità del reato sarà necessario provare:
– l’esistenza di una speculazione sul prezzo;
– la possibilità di inquadrare un determinato prodotto tra quelli di “prima necessità”;
– che la condotta possa “determinare la rarefazione o il rincaro sul mercato interno”.
Per quanto riguarda i primi due punti sorgono pochi dubbi.
Come evidenziato nel decreto in commento, infatti, la configurabilità del reato deve essere valutata “alla luce della eccezionale contingenza economico-sociale che sta vivendo il nostro paese in queste settimane, essendo in corso la più grave emergenza sanitaria degli ultimi decenni (pandemia da COVID-19), a causa della quale le mascherine protettive de quibus sono divenute “beni di prima necessità” (art. 501 bis c.p.) sia per la protezione dell’individuo in ambito privato che per la sua tutela nello svolgimento della vita lavorativa, secondo le prescrizioni delle Autorità Sanitarie nazionali ed internazionali (OMS)”.
Tale considerazione è sicuramente condivisibile, soprattutto se si considera che alla luce di quanto disposto dai DPCM che si sono succeduti nel tempo e, da ultimo, dall’art. 3 comma 2 del DPCM del 26 aprile 2020, tali dispositivi devono essere obbligatoriamente indossati “nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuativamente il mantenimento della distanza di sicurezza”.
Si tratta, pertanto, di beni che, nel contesto attuale, non possono che essere inquadrati in quelli di prima necessità e il prezzo di vendita pari al triplo o al quadruplo di quello di acquisto non può che integrare la “speculazione” richiesta dalla norma.
Resta, pertanto, da valutare la configurabilità del reato sotto l’ultimo profilo, ovvero quello della rarefazione o del rincaro sul mercato interno.
Al fine di comprendere tale ultimo requisito è necessario esaminare la natura del reato di cui all’art. 501bis c.p. e, in particolare, se lo stesso debba essere considerato come un reato di pericolo concreto o astratto.
Nel primo caso, infatti, il reato potrà dirsi configurabile solo nel caso in cui la condotta dell’agente possa rappresentare un concreto pericolo per il bene giuridico tutelato. In questa categoria di reati, infatti, l’elemento del “pericolo” rappresenta uno degli elementi costitutivi del reato.
Nel secondo caso, invece, dovrà essere valutata solo la pericolosità potenziale di una determinata condotta, in quanto nei reati di pericolo astratto è il legislatore che ha tipizzato un fatto che ritiene idoneo a mettere in pericolo un determinato bene giuridico sulla base di una valutazione di carattere generale, senza inserirlo come requisito esplicito della fattispecie.
La natura del “pericolo” previsto dall’art. 501-bis c.p. è stata al centro di un acceso dibattito in dottrina e in giurisprudenza.
Nel decreto di sequestro in commento, al fine di sostenere la configurabilità dell’ipotesi di reato in parola, si è avallata la tesi del reato di pericolo astratto evidenziando che:
– alla luce di un risalente orientamento di legittimità (Cass. Pen. Sez. VI 15/05/1989), l’aumento ingiustificato dei prezzi ad opera di singolo commerciante che profitti di particolari contingenze del mercato, può astrattamente influenzate gli altri operatori del settore e, conseguentemente, determinare un rialzo dei prezzi del mercato interno;
– “la locuzione “mercato interno”, contenuta nella citata norma, rende configurabile la fattispecie criminosa anche quando la manovra speculativa non si rifletta sul mercato nazionale, ma soltanto su di un mercato locale, in modo da poter nuocere alla pubblica economia; ed allora, giova ricordare che la fattispecie sanziona un evento di pericolo astratto, secondo la dominante dottrina, dal che il giudizio di pericolosità deve formularsi ex ante sull’attitudine della condotta a provocare i suddetti fenomeni di rarefazione o rincaro”.
Tale ricostruzione, per quanto intrinsecamente logica e coerente con la ratio della fattispecie in esame che, come evidenziato nel decreto di sequestro, “è stata resa necessaria dall’impossibilità di ricondurre i piccoli fenomeni speculativi alla sfera di operatività dell’aggiotaggio, data la dimensione macroscopica sia della struttura oggettiva che del dolo specifico di questo reato”, si scontra con quella che è la giurisprudenza maggioritaria che tende a limitare i casi di configurabilità del reato in oggetto a quelli che possano concretamente incidere sul mercato nazionale, riconducendo quindi la fattispecie nella categoria dei reati di pericolo concreto.
In particolare, secondo l’orientamento giurisprudenziale di maggioranza, ai fini della configurabilità del reato:
– deve essere dimostrata una concreta potenzialità lesiva dell’attività speculativa rispetto al bene protetto che è appunto il mercato interno, anche se inteso a livello locale (da intendersi come una “zona abbastanza vasta del territorio dello Stato”) in modo tale da poter nuocere all’economia generale del Paese;
– al fine di determinare tale “concreta potenzialità lesiva” dovranno essere prese in considerazione “le dimensioni dell’impresa, la notevole quantità di merci e la possibile influenza sui comportamenti degli altri operatori del settore” (cfr. Cass. Pen. Sez. VI 15/05/1989, citata proprio nel decreto di sequestro in commento).
Alla luce di quanto statuito dalla Corte di legittimità, indipendentemente dalla valutazione che può essere svolta in ordine alla natura dell’art. 501bis c.p. (pericolo concreto e astratta), la capacità di influenza su un mercato, anche locale, da parte di un singolo venditore in possesso di poco più di 200 dispositivi di protezione persole, appare estremamente limitata.
A tal proposito, si evidenzia, infatti, che in un altrettanto recente provvedimento del Tribunale del Riesame di Lecce emesso in data 27 aprile 2020 e riguardante un caso molto simile a quello in esame (vendita di 2000 mascherine ad un prezzo di gran lunga superiore a quello di acquisto), il Tribunale non ha ritenuto configurabile la fattispecie di cui all’art. 501-bis c.p. evidenziando che la condotta “non è in grado di ledere la “pubblica economia” (quindi di influire sulla “situazione economica generale”), non rientrando nell’alveo applicativo del delitto previsto dall’art. 501 bis c.p”.
Da ciò si desume che, nel caso di speculazioni operate da singoli imprenditori e/o negozianti, isolati da un contesto di grande distribuzione, alla luce della giurisprudenza di legittimità maggioritaria tali condotte non possono integrare la fattispecie di cui all’art. 501-bis c.p., come è stato sostenuto nella summenzionata ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce.
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