Iniziamo questa rubrica dedicata alle parole d’altri tempi con un’arringa pronunciata da Alfredo De Marsico in difesa di Rocco di Candia avanti il Tribunale Militare di Trieste il 28 dicembre 1927.
Il fatto portato all’attenzione del Collegio fu semplice nella sua drammaticità: nel 1925 il Maresciallo dei Carabinieri Rocco di Candia esplose quattro colpi di rivoltella all’indirizzo della moglie, Maria Pignataro, provocandone il decesso.
Qualche tempo prima aveva scoperto e fatto confessare alla coniuge la propria infedeltà, ottenendo una condanna per adulterio.
Nel corso del giudizio a carico del di Candia l’accusa argomentò come la confessione della moglie sarebbe stata indotta dallo stesso imputato dietro la promessa di accoglierla nuovamente nel talamo coniugale. Tuttavia, terminato il processo per adulterio, la Pignataro e il di Candia si incontrarono nella Stazione dei Carabinieri, dove il di Candia negò alla moglie la promessa riconciliazione, rifiuto che avrebbe spinto la Pignataro a minacciare di prostituirsi e il di Candia a esplodere i colpi d’arma da fuoco.
Nel corso del processo fu accertato come il tumulto di emozioni suscitato dalle parole della moglie avesse determinato nell’imputato una transitoria infermità di mente.
Il Tribunale assolse.
De Marsico nella propria scandaglia l’animo dell’imputato, la genesi e la portata inarrestabile del turbamento che ebbe a provare davanti alle parole della coniuge.
Chiunque potrà notare lo stile asciutto, il lessico puntuale ma anche il pathos del grande Maestro campano.
Numerosi sono gli spunti di riflessione che possiamo trarre dalla lettura di queste mirabili parole.
Uno tra tanti, l’importante mutamento nella costruzione argomentativa imposto dal “nuovo” codice di procedura penale.
L’attuale codice di rito ha infatti costituito una novità importante anche sotto il profilo delle abilità argomentative che sono richieste all’avvocato.
In epoche passate, come si può notare dall’arringa che proponiamo in lettura, la discussione finale costituiva lo spazio scenico ed oratorio in cui un avvocato mostrava la propria capacità persuasiva, oggi significativamente frenata dal codice di rito.
L’art. 523 c.p.p. stabilisce infatti, tra l’altro, che il Presidente dirige la discussione e “impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione”.
Con questo articolo è stata dunque revocata la cittadinanza a una serie di figure retoriche proprie della tradizione classica dell’oratoria forense in favore di un modello argomentativo distaccato, contenuto nello stretto perimetro della consequenzialità logica.
Come è stato acutamente osservato, ciò che ha caratterizzato lo stile dell’oratoria forense dall’Ottocento agli ultimi decenni del Novecento è stata l’irruzione del pathos nel dominio del lógos (Chaim Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca “Trattato dell’argomentazione” – Einaudi, 2001). Con il “nuovo” codice di rito, invece, il pathos perde ogni cittadinanza, con la conseguenza che l’argomentazione che dovesse sollecitare reazioni emotive sarebbe meritevole dell’intervento censorio del Presidente.
Se volessimo soffermarci su un esempio, potremmo accennare al destino delle figure retoriche connesse alla “ripetizione”, vietata dall’art. 523 c.p.p.
Si impedisce, per esempio, il ricorso all’anafora, che consiste giustappunto nel ripetere la stessa parola o lo stesso concetto all’inizio della frase.
Ne abbiamo un esempio nel quarto capoverso dell’arringa qui proposta, laddove De Marsico, nel riferirsi alle conclusioni del difensore di parte civile, l’Avv. Tammaro, ripete la locuzione “Questa conclusione”, seppur con qualche variazione e almeno in un caso in forma ellittica (“questa conclusione ci dispensa dal dimostrarvi […]”; “[questa conclusione] ci dispensa dal riabilitarlo […]”, “questa conclusione impone al nostro compito i suoi limiti necessari“), oppure quando, poco più avanti, vengono accostati gli “ideali del cuore” e la divisa dell’imputato (“In questa vicenda di amore e di morte gl’ideali del cuore e l’ideale della divisa sono sempre insieme; insieme fiammeggiano all’inizio; insieme sono offesi dall’adulterio; insieme divampano nella vendetta“).
Dante Alighieri, se avesse iniziato un arringa con il celebre anaforico del III Canto di “Inferno”, senza dubbio sarebbe stato ammonito dal Tribunale (“Per me si va ne la città dolente,/per me si va ne l’eterno dolore/ per me si va tra la perduta gente”). Analogo richiamo lo avrebbe ricevuto anche Cecco Angiolieri, se avesse osato principiare il proprio dire con il celebre “S’i fosse foco”.
Anche la figura dell’ “amplificazione” è cauta sotto la mannaia dell’art. 523 c.p.p.: la enumerazione di circostanze, parti e aspetti del medesimo tema trattato non risulterebbe gradita all’attento governo della discussione. Eppure De Marisco ne fa ricorso frequentemente, come allorquando fa riferimento al drammatico incontro tra l’imputato e la vittima presso la Stazione dei Carabinieri, di poco precedente il delitto (“Il sentimento morale, la legge come devono definire l’atto di questo giovane che al buio, dopo un colloquio con l’adultera durato un’ora – una battaglia d’anima e di nervi durata una eternità – spara ed uccide?“). Amplificazione ricca di pathos quanto quella celebre del Vico, il quale pure verrebbe richiamato a una maggior sintetica argomentazione (“Cotesti occhi tuoi sono formati alla impudenza, il volto all’audacia, la lingua agli spergiuri, le mani alle rapine, il ventre alla ingordigia, i piedi alla fuga: dunque sei tutto malvagità” – G.B. Vico, “Delle istituzioni oratorie“, Ed. Giacinto Moretti, 1844, pag. 81).
Parimenti verrebbe mal sopportata in quanto inopportuna la “metàbole”, cioè la ripetizione di una stessa idea per mezzo di parole diverse, le quali paiono correggersi progressivamente l’un l’altra attraverso una maggiore precisione semantica.
Con ineguagliabile maestria De Marsico ce ne fornisce un esempio nella descrizione di un preciso momento del tumulto emotivo dell’imputato, allorquando il suo stato d’animo si trova per un attimo a esser compassionevole per la futura vittima: “Tuttavia, verso l’altro orlo del baratro egli lancia invocazioni di bontà e sembra con le sue mani sollevare dall’onta la colpevole, sorreggerla, elevarla, trasfigurarla“.
Eppure la necessità della ripetizione è connessa all’esigenza della cd. “presenza argomentativa”. Con la ripetizione infatti si può accentuare la suddivisione di un fatto o di un fenomeno in parti dettagliate, in frammenti progressivi, suggerendone sfumate distinzioni, con lo scopo di favorire la cd. “presenza”, vale a dire di portare quasi fisicamente l’oggetto del discorso davanti all’uditore, di “presentarlo” alla sua attenzione (Chaim Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca “Trattato dell’argomentazione” – Einaudi, 2001, p. 184).
Il ricorso alla ripetizione dunque spesso è giustificato dalla natura del discorso, il quale nell’arringa è di tipo persuasivo e non meramente dimostrativo, come sarebbe se si trattasse di un’argomentazione scientifica.
E’ pur vero che la reiterazione di temi o di argomenti può discendere da negligenza dell’oratore. E’ altrettanto vero però come la esperienza quotidiana ci abbia consegnato anche casi nei quali la ripetizione, benché sanzionata e impedita, avrebbe potuto costituire elemento essenziale nella costruzione persuasiva dell’arringa.
La conseguenza è stata, ed è, la esclusione dall’orizzonte della discussione di gran parte delle figure retoriche che sono state elaborate nel corso di secoli. L’abrasione del bagaglio argomentativo non è questione che attiene solo alla forma delle tecniche di persuasione. La filosofia del linguaggio e la neurologia hanno ormai dimostrato come la struttura dell’espressione verbale rifletta e influisca sulle capacità cognitive e di elaborazione della realtà dell’individuo (cfr., ex multis, G.A. Miller, “Language and Communication”, New York, McGraw-Hill, 1955).
L’inaridimento dell’argomentazione rischia dunque di originare e aggravare quel complessivo inaridimento culturale che purtroppo è sotto gli occhi di tutti.
Non ci restano dunque che pochi spazi, come questa rubrica, nei quali possiamo assaporare le mirabili parole di Maestri come De Marsico: parole ricche di anafore e di amplificazioni, di digressioni psicologiche e di iperboli affascinanti, proprie di una tradizione oratoria che sembra ormai destinata al silenzio, benché abbia ancora ricchi insegnamenti da donarci.
Il testo della trascrizione è tratta dalla versione contenuta nel Volume I delle “Arringhe” di Alfredo De Marsico pubblicata da Jovene Editore, Napoli, 1983.
In allegato l’arringa di De Marsico
Arringa di Alfredo De Marsico del 1927
Iniziamo questa rubrica dedicata alle parole d’altri tempi con un’arringa pronunciata da Alfredo De Marsico in difesa di Rocco di Candia avanti il Tribunale Militare di Trieste il 28 dicembre 1927.
Il fatto portato all’attenzione del Collegio fu semplice nella sua drammaticità: nel 1925 il Maresciallo dei Carabinieri Rocco di Candia esplose quattro colpi di rivoltella all’indirizzo della moglie, Maria Pignataro, provocandone il decesso.
Qualche tempo prima aveva scoperto e fatto confessare alla coniuge la propria infedeltà, ottenendo una condanna per adulterio.
Nel corso del giudizio a carico del di Candia l’accusa argomentò come la confessione della moglie sarebbe stata indotta dallo stesso imputato dietro la promessa di accoglierla nuovamente nel talamo coniugale. Tuttavia, terminato il processo per adulterio, la Pignataro e il di Candia si incontrarono nella Stazione dei Carabinieri, dove il di Candia negò alla moglie la promessa riconciliazione, rifiuto che avrebbe spinto la Pignataro a minacciare di prostituirsi e il di Candia a esplodere i colpi d’arma da fuoco.
Nel corso del processo fu accertato come il tumulto di emozioni suscitato dalle parole della moglie avesse determinato nell’imputato una transitoria infermità di mente.
Il Tribunale assolse.
De Marsico nella propria scandaglia l’animo dell’imputato, la genesi e la portata inarrestabile del turbamento che ebbe a provare davanti alle parole della coniuge.
Chiunque potrà notare lo stile asciutto, il lessico puntuale ma anche il pathos del grande Maestro campano.
Numerosi sono gli spunti di riflessione che possiamo trarre dalla lettura di queste mirabili parole.
Uno tra tanti, l’importante mutamento nella costruzione argomentativa imposto dal “nuovo” codice di procedura penale.
L’attuale codice di rito ha infatti costituito una novità importante anche sotto il profilo delle abilità argomentative che sono richieste all’avvocato.
In epoche passate, come si può notare dall’arringa che proponiamo in lettura, la discussione finale costituiva lo spazio scenico ed oratorio in cui un avvocato mostrava la propria capacità persuasiva, oggi significativamente frenata dal codice di rito.
L’art. 523 c.p.p. stabilisce infatti, tra l’altro, che il Presidente dirige la discussione e “impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione”.
Con questo articolo è stata dunque revocata la cittadinanza a una serie di figure retoriche proprie della tradizione classica dell’oratoria forense in favore di un modello argomentativo distaccato, contenuto nello stretto perimetro della consequenzialità logica.
Come è stato acutamente osservato, ciò che ha caratterizzato lo stile dell’oratoria forense dall’Ottocento agli ultimi decenni del Novecento è stata l’irruzione del pathos nel dominio del lógos (Chaim Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca “Trattato dell’argomentazione” – Einaudi, 2001). Con il “nuovo” codice di rito, invece, il pathos perde ogni cittadinanza, con la conseguenza che l’argomentazione che dovesse sollecitare reazioni emotive sarebbe meritevole dell’intervento censorio del Presidente.
Se volessimo soffermarci su un esempio, potremmo accennare al destino delle figure retoriche connesse alla “ripetizione”, vietata dall’art. 523 c.p.p.
Si impedisce, per esempio, il ricorso all’anafora, che consiste giustappunto nel ripetere la stessa parola o lo stesso concetto all’inizio della frase.
Ne abbiamo un esempio nel quarto capoverso dell’arringa qui proposta, laddove De Marsico, nel riferirsi alle conclusioni del difensore di parte civile, l’Avv. Tammaro, ripete la locuzione “Questa conclusione”, seppur con qualche variazione e almeno in un caso in forma ellittica (“questa conclusione ci dispensa dal dimostrarvi […]”; “[questa conclusione] ci dispensa dal riabilitarlo […]”, “questa conclusione impone al nostro compito i suoi limiti necessari“), oppure quando, poco più avanti, vengono accostati gli “ideali del cuore” e la divisa dell’imputato (“In questa vicenda di amore e di morte gl’ideali del cuore e l’ideale della divisa sono sempre insieme; insieme fiammeggiano all’inizio; insieme sono offesi dall’adulterio; insieme divampano nella vendetta“).
Dante Alighieri, se avesse iniziato un arringa con il celebre anaforico del III Canto di “Inferno”, senza dubbio sarebbe stato ammonito dal Tribunale (“Per me si va ne la città dolente,/per me si va ne l’eterno dolore/ per me si va tra la perduta gente”). Analogo richiamo lo avrebbe ricevuto anche Cecco Angiolieri, se avesse osato principiare il proprio dire con il celebre “S’i fosse foco”.
Anche la figura dell’ “amplificazione” è cauta sotto la mannaia dell’art. 523 c.p.p.: la enumerazione di circostanze, parti e aspetti del medesimo tema trattato non risulterebbe gradita all’attento governo della discussione. Eppure De Marisco ne fa ricorso frequentemente, come allorquando fa riferimento al drammatico incontro tra l’imputato e la vittima presso la Stazione dei Carabinieri, di poco precedente il delitto (“Il sentimento morale, la legge come devono definire l’atto di questo giovane che al buio, dopo un colloquio con l’adultera durato un’ora – una battaglia d’anima e di nervi durata una eternità – spara ed uccide?“). Amplificazione ricca di pathos quanto quella celebre del Vico, il quale pure verrebbe richiamato a una maggior sintetica argomentazione (“Cotesti occhi tuoi sono formati alla impudenza, il volto all’audacia, la lingua agli spergiuri, le mani alle rapine, il ventre alla ingordigia, i piedi alla fuga: dunque sei tutto malvagità” – G.B. Vico, “Delle istituzioni oratorie“, Ed. Giacinto Moretti, 1844, pag. 81).
Parimenti verrebbe mal sopportata in quanto inopportuna la “metàbole”, cioè la ripetizione di una stessa idea per mezzo di parole diverse, le quali paiono correggersi progressivamente l’un l’altra attraverso una maggiore precisione semantica.
Con ineguagliabile maestria De Marsico ce ne fornisce un esempio nella descrizione di un preciso momento del tumulto emotivo dell’imputato, allorquando il suo stato d’animo si trova per un attimo a esser compassionevole per la futura vittima: “Tuttavia, verso l’altro orlo del baratro egli lancia invocazioni di bontà e sembra con le sue mani sollevare dall’onta la colpevole, sorreggerla, elevarla, trasfigurarla“.
Eppure la necessità della ripetizione è connessa all’esigenza della cd. “presenza argomentativa”. Con la ripetizione infatti si può accentuare la suddivisione di un fatto o di un fenomeno in parti dettagliate, in frammenti progressivi, suggerendone sfumate distinzioni, con lo scopo di favorire la cd. “presenza”, vale a dire di portare quasi fisicamente l’oggetto del discorso davanti all’uditore, di “presentarlo” alla sua attenzione (Chaim Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca “Trattato dell’argomentazione” – Einaudi, 2001, p. 184).
Il ricorso alla ripetizione dunque spesso è giustificato dalla natura del discorso, il quale nell’arringa è di tipo persuasivo e non meramente dimostrativo, come sarebbe se si trattasse di un’argomentazione scientifica.
E’ pur vero che la reiterazione di temi o di argomenti può discendere da negligenza dell’oratore. E’ altrettanto vero però come la esperienza quotidiana ci abbia consegnato anche casi nei quali la ripetizione, benché sanzionata e impedita, avrebbe potuto costituire elemento essenziale nella costruzione persuasiva dell’arringa.
La conseguenza è stata, ed è, la esclusione dall’orizzonte della discussione di gran parte delle figure retoriche che sono state elaborate nel corso di secoli. L’abrasione del bagaglio argomentativo non è questione che attiene solo alla forma delle tecniche di persuasione. La filosofia del linguaggio e la neurologia hanno ormai dimostrato come la struttura dell’espressione verbale rifletta e influisca sulle capacità cognitive e di elaborazione della realtà dell’individuo (cfr., ex multis, G.A. Miller, “Language and Communication”, New York, McGraw-Hill, 1955).
L’inaridimento dell’argomentazione rischia dunque di originare e aggravare quel complessivo inaridimento culturale che purtroppo è sotto gli occhi di tutti.
Non ci restano dunque che pochi spazi, come questa rubrica, nei quali possiamo assaporare le mirabili parole di Maestri come De Marsico: parole ricche di anafore e di amplificazioni, di digressioni psicologiche e di iperboli affascinanti, proprie di una tradizione oratoria che sembra ormai destinata al silenzio, benché abbia ancora ricchi insegnamenti da donarci.
Il testo della trascrizione è tratta dalla versione contenuta nel Volume I delle “Arringhe” di Alfredo De Marsico pubblicata da Jovene Editore, Napoli, 1983.
In allegato l’arringa di De Marsico
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