ISSN 2724-0711

Modifica della qualificazione del fatto e diritto all’oblazione

Giorgio Spangher - 03/09/2020
Corte cost., 14 luglio 2020 (dep. 31 luglio 2020), n. 192

Corte cost., 14 luglio 2020 (dep. 31 luglio 2020), n. 192

1.

Con la sentenza n. 192 del 2020 della Corte costituzionale si affronta il tema della possibilità che l’imputato sia rimesso in termini per proporre domanda di oblazione qualora nel corso del dibattimento, su iniziativa del giudice e in mancanza di modifica formale dell’imputazione da parte del pubblico ministero, emerga la prospettiva concreta di una definizione giuridica del fatto diversa da quella contestata nell’originaria imputazione e per la quale l’oblazione non era ammissibile.

Nel caso di specie il giudice, a quo, ritenuto di poter dare al fatto contestato nell’imputazione, una diversa qualificazione giuridica, invitava le parti ad interloquire sul punto e la difesa presentava domanda di oblazione (prima preclusa). Tuttavia, la domanda di accesso al meccanismo di cui all’art. 162 c.p. risultava prospettata al di là del termine di cui all’art. 162 bis c.p. Da qui, in relazione all’art. 24 comma 2 Cost., la questione di legittimità costituzionale.

Per evitare “fughe in avanti” o una comoda “exitstrategy”, è necessario prendere le mosse da quanto considerato – come premessa – sia da giudice a quo, sia dalla Corte costituzionale, sia dalle sezioni unite del 2014: la distinzione tra le modifiche in fatto e quelle in cure, le prime riconducibili alla modifica dell’imputazione, le seconde legate alla identità dei fatti ed alla diversa qualificazione giuridica ad essi data dal giudice, con conseguente inapplicabilità di quanto previsto dall’art. 141, comma 4 bis, disp. att. c.p.p., giustamente prospettato di incostituzionalità dal giudice a quo.

Va, tuttavia, sottolineato come, considerata una notevole elasticità giurisprudenziale sul principio di correlazione tra accusa e sentenza, spesso una diversa qualificazione in diritto, consegue ad una diversa ricostruzione del fatto.

Il tavolo va altresì sgombrato da ulteriori elementi, che potrebbero risultare inquinanti adombrati dalla Corte costituzionale: la contiguità o meno delle fattispecie, quella oggetto dell’imputazione e quella della qualificazione giuridica, e la considerazione in ordine alla natura deflattiva, tesa all’economia processuale, dell’oblazione.

Sotto questi aspetti, infatti, per un verso, si tratta di elementi di puro fatto, per un altro, nel bilanciamento tra diritti (difensivi) e deflazione, quanto meno in primo grado, trova prevalenza la tutela difensiva, restando da valutare la prevalenza della deflazione nei successivi gradi di giudizio.

Giova ricordare che la questione è già stata prospettata davanti alla Corte costituzionale che, per le modalità della proposizione (difetto di rilevanza) e delle soluzioni indicate, era stata dichiarata inammissibile (ordinanza del giudice; applicazione in via analogica dell’art. 521, comma 2, c.p.p.; regressione del procedimento).

Nell’affrontare la questione la mente corre alla decisione Cedu relativa al Caso Drassich. Al riguardo, tuttavia, la Corte costituzionale sottolinea come si fosse trattato di una iniziativa a sorpresa e le sezioni unite 2014, come si sia trattato di una decisione in malam partem (esclusione della prescrizione e violazione del divieto della reformatio in peius).

La Corte costituzionale riconosce come per la giurisprudenza della Cedu non ci sia distinzione tra le modifiche in fatto e quelle legate alla qualificazione giuridica, ma fa notare come su quest’ultimo profilo la Corte europea non ancora si sia pronunciata.

Richiama, peraltro, le decisioni con le quali si ritiene che agli imputati debba essere assicurata l’opportunità di esercitare i diritti di difesa in modo concreto ed effettivo e che le modalità dell’informazione possano essere le più varie, tra le quali si può annoverare anche l’impugnazione.

Nel dichiarare non fondata la questione, la Corte costituzionale dichiara di condividere le sentenze sez. un. 28 febbraio 2006 – 2 marzo 2006 n. 7645 e soprattutto 26 giugno 2014 – 22 luglio 2014 n. 32351 assunte come diritto vivente.

A rafforzare le proprie conclusioni la Corte costituzionale richiama la sentenza 13 giugno 2019 – causa c – 646117 Moro della Corte di giustizia dell’Unione europea.

 

2.

Invero, alcune affermazioni della sentenza della Corte costituzionale lasciano perplessi.

In primo luogo, il riferimento al c.d. diritto vivente. E’ pienamente legittimo che la Cassazione ricostruisca nei termini riferiti la questione della quale i giudici costituzionali sono investiti, superando interpretazioni alternative (sentenza condizionata, o altra soluzione). Tuttavia, il problema che la Corte doveva affrontare era quello della legittimità costituzionale dei limiti della tutela difensiva rispetto ai parametri costituzionali e convenzionali.

Inoltre, non convince neppure il riferimento alla mancata decisione della Cedu, dopo il riconoscimento che per i giudici di Strasburgo non opererebbe la distinzione tra questione di fatto e questione di diritto, soprattutto nella misura in cui i giudici sovranazionali ritengono necessaria una tutela concreta ed effettiva, che nel caso concreto manca, non essendo possibile ottenere l’oblazione in appello. Del resto, la stessa Corte riconosce che non sarebbe possibile consentire un simile risultato in fase di gravame. E’ parimenti suggestiva l’affermazione per la quale l’eventuale riconoscimento del diritto all’oblazione in primo grado potrebbe favorire soluzioni analoghe nei successivi gradi del procedimento.

La Corte costituzionale, inoltre, cerca di supportare la propria conclusione anche sulla base di quanto asserito dalla decisione della Corte di Lussemburgo (su di un caso italiano) della sentenza 13 giugno 2019, causa C-646/17, Moro ove si è affermato che l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13 e l’art. 48 della Carta devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale in forza della quale l’imputato può domandare nel corso del dibattimento l’applicazione della pena su richiesta nel caso di una modifica dei fatti su cui si base l’imputazione, e non nel caso di una modifica della qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell’imputazione.

Al riguardo, la stessa decisione riconosce che il considerando 40 della direttiva 2012/13 stabilisce “norme minime e gli Stati membri possono ampliare i diritti previsti da tale direttiva al fine di assicurare un livello di tutela più elevato … che non dovrebbe mai essere inferiore alle disposizioni della Cedu”.

Peraltro, la motivazione della decisione Moro evidenzia come anche la modifica della qualificazione giuridica del fatto debba essere comunicata all’imputato o al suo avvocato in un momento in cui questi abbiano ancora la possibilità di reagire in modo effettivo, prima della deliberazione. A rafforzare tale assunto, la motivazione della sentenza Moro fa presente che tale possibilità è contemplata dall’art. 6 paragrafo 4 della direttiva 2012/13 il quale prevede che ogni eventuale modifica alle informazioni fornite a norma di tale articolo che si verifichi durante il procedimento penale deve essere comunicata tempestivamente alla persona indagata o imputata (sentenza 5 giugno 2018, Kolev) con sospensione della causa e se del caso con rinvio ad una data successiva (ancora caso Kolev).

Ora, l’informativa e la sospensione del procedimento, sicuramente, hanno un significato preciso se messe in relazione alla possibilità per difesa di esercitare concretamente ed effettivamente l’opportunità che l’informativa dischiude, non limitata a “richieste”, in particolare “istruttorie” (così la sentenza Moro).

Secondo la Corte costituzionale, al fine di avvalersi delle possibilità estintive del reato a fronte della diversa qualificazione giuridica del fatto (immutato), la difesa dovrebbe proporre una richiesta “anticipata” in tal senso, prospettandosi una simile evenienza.

La decisione – in qualche modo – si ricollega a quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 131 del 2019 relativamente alla possibilità di concedere la messa alla prova – richiesta dalla difesa quando non sarebbe stata concedibile – all’esito di un dibattimento che, avendo qualificato diversamente il fatto, rendeva possibile applicare l’art. 168 bis c.p.

Se è corretto sostenere che nel caso in cui la difesa formuli questa richiesta il giudice, sopravvenute le condizioni, possa disporre in conseguenza della richiesta, ciò non significa – necessariamente – che questa debba essere l’unica risposta costituzionalmente rispettosa dei diritti difensivi e quindi obbligata.

Invero, il sistema prevede all’art. 506 c.p.p. che il giudice prospetti alle parti gli sviluppi processuali possibili. Il dato appare in linea con quanto riconosciuto anche dalla sentenza Moro, come già riportato. Appare conseguente che a questa informativa sia ricollegato quel diritto ad un tempestivo perché concreto ed efficace esercizio dei diritti di cui il soggetto è titolare e che non possono essere solo istruttori.

Del resto, onerare l’imputato di richieste in una dimensione tuzioristica, cautelare e prognostica, non necessariamente fondate, non può non appesantire il processo, la motivazione e i gravami successivi.

La soluzione che il giudice a quo aveva prospettato appariva, pertanto, quella maggiormente conforme sia sotto il profilo costituzionale, sia sotto quello convenzionale.

 

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